Voci della Grande Guerra

La guerra alla fronte italiana fino all’arresto sulla linea della Piave e del Grappa: 24 maggio 1915-9 novembre 1917 vol. 2 Frase: #106

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AutoreCadorna, Luigi
Professione AutoreMilitare
EditoreTreves
LuogoMilano
Data1921
Genere TestualeMemorie
BibliotecaUniversity of Toronto Library (Internet Archive)
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Parti Gold[89-118] + [119-193]
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Riferirò brevemente gli avvenimenti colla scorta della relazione riassuntiva in data 30 settembre 1917 del Comando supremo.

Nell’applicazione tattica del concetto strategico precedentemente esposto, la battaglia dall’Idria al Timavo può considerarsi divisa in tre momenti distinti: l’attacco su tutta la fronte e il passaggio dell’Isonzo a monte di Plava; la manovra di sfondamento sulla Bainsizza e il contemporaneo attacco sul Carso; l’avanzata sull’altopiano di Bainsizza.

Il giorno 17 agosto, su vari tratti della fronte l’artiglieria aveva portati i tiri di aggiustamento e di rettifica ad una frequenza assai prossima al bombardamento, ma soltanto all’alba del 18 un fuoco di intensità e di violenza senza precedenti si abbatteva sulle posizioni nemiche da Tolmino al mare.

Sotto il percuotere incessante dei proiettili, nubi di fumo e di polvere si levavano delineando l’andamento delle trincee nemiche:

parapetti e pareti franavano seppellendo i difensori:

le difese accessorie sparivano, distrutte, e i superstiti cercavano riparo nei camminamenti non più sicuri, si rifugiavano più addentro nelle caverne, i cui imbocchi si andavano ostruendo.

Più volte le nostre fanterie, sotto l’arco delle traiettorie opportunamente allungate, uscivano al riconoscimento dei varchi aperti attraverso i reticolati provocando dal nemico vivace reazione, obbligandolo a smascherare e a rivelare alla nostra offesa, batterie e mitragliatrici tenute nascoste per il fuoco di sbarramento.

I nostri velivoli, a ondate sempre rinnovantisi, colpivano le batterie negli appostamenti individuati nei lunghi voli di ricognizione, mentre con l’ardire e la preponderanza numerica tenevano inchiodati nei loro campi gli apparecchi nemici incapaci di tentare il volo e l’offesa.

A sera una via di incendi illuminava le retrovie nemiche;

fiamme si elevavano da Tolmino, da Polubino, da Modreja, dalla stazione di Santa Lucia, da Lom di Canale, da Mesnjak, dal rovescio dell’altura di Santa Lucia;

ardevano le foreste dell’altopiano di Ternova e dell’Hermada;

nuovi fuochi divampavano accanto a quelli accesi al mattino, che gli austriaci non avevano neppure potuto tentare di domare per il nostro bombardamento e che si venivano lentamente consumando.

Nella notte sul 19, poche ore prima che su tutta la fronte da Tolmino al mare le truppe scattassero all’attacco, la 2.a armata iniziava il passaggio dell’Isonzo, magnifica operazione, sapientemente concepita dal generale Capello, arditamente eseguita.

Su una diga costruita attraverso all’Isonzo all’altezza di Caporetto, venivano calate le saracinesche ed il pelo d’acqua del fiume si abbassava facilitando l’operazione.

Le artiglierie leggere nemiche, le numerose mitragliatrici portate a guardia del fiume, aprivano fuoco violento, subito paralizzate dai nostri concentramenti di tiro.

Quattordici ponti, parecchi dei quali in difficilissime condizioni di terreno presso le rive del fiume, venivano gettati fra Anhovo e Doblar dai pontieri del genio (II e IV battaglione del 4.° reggimento) che intrepidi, infaticabili, compievano l’opera loro sotto la tempesta delle granate e degli shrapnels;

colonne di fanti, di bersaglieri, di alpini e di artiglieria da montagna si lanciavano arditamente attraverso i ponti sull’opposta riva dell’Isonzo.

Un arduo còmpito le attendeva:

l’altopiano di Bainsizza, di natura carsica, sorge tra l’Isonzo, l’Idria e il solco di Chiapovano;

dall’altitudine media di 950 metri che esso raggiunge subito a ponente di detto solco, il terreno degrada dolcemente, attraverso una serie di rilievi e di avvallamenti, fino alla curva di livello 600, dopo la quale scende rapidamente all’Isonzo.

Tre linee di facilitazione si presentano a chi dal fiume voglia salire sull’altopiano: la valle del torrente Auzza, il vallone del Rohot e la sella di Dol.

Il sistema difensivo austriaco dell’altopiano si fondava appunto sullo sbarramento di queste vie di accesso mediante l’organizzazione a caposaldi di taluni centri abitati quali Auzza, Canale e Descla e dei nodi montani Veliki Vrh, Semmer, Fratta, Kuk 711, Jelenik e Kobilek e mediante un triplice ordine di trincee, corrente il primo lungo la riva sinistra dell’Isonzo, il secondo a mezza costa, circa a quota 300, mentre il terzo collegava tra loro i caposaldi a guisa di cortina.

Due linee traversali appoggiantisi alla fronte Jelenik - Fratta formavano nel sistema due paratie stagne sulle quali molto facevano assegnamento gli austriaci per arginare rapidamente qualunque nostra irruzione.

Su tale terreno aspro, impervio, estremamente povero d’acque, le nostre truppe si accingevano a dare l’attacco la mattina del 19.

Mentre al nord una puntata dimostrativa nella zona del Monte Nero, al Mrzli e al Monte Rosso, doveva impedire agli austriaci di spostare forze verso l’altopiano e toglieva loro prigionieri, mentre un’altra azione impegnativa si svolgeva sulla fronte Santa Lucia - Santa Maria di Tolmino, l’operazione principale si snodava precisa e serrata, secondo il piano prestabilito.

L’ala sinistra (XXVII corpo) e il centro (XXIV), varcato il fiume tra Doblar e Anhovo, avanzavano:

la prima, rallentata da tenacissima resistenza avversaria, scalava metodicamente il costone tra Vogercek e l’Auzza;

il secondo, movendo più rapidamente, puntava sulla linea fortificata Fratta - Semmer colla 47.a divisione (1.a e 5.a brigata bersaglieri) fiancheggiata a nord dai battaglioni alpini Monte Pasubio e Monte Tonale seguenti il versante sinistro dell’Auzza ed a sud da altri elementi diretti contro il Jelenik.

L’ala destra (II corpo) assecondava il movimento, assalendo la fronte Rutarsce - Bavterca, premendo contro il nemico dal Vodice al Monte Santo.

Espugnata la linea Fratta - Semmer, il XXIV corpo cominciava il giorno 20 a svolgere la manovra che doveva dare l’impronta della battaglia.

Primo obbiettivo era lo sfondamento della linea Ossoinca - Oscedrih:

in un secondo tempo le unità impiegate in questa azione dovevano convergere a sud-est e concorrere così, con una mossa aggirante, alla conquista della linea Kuk 711 - Jelenik, che truppe operanti alla loro destra dovevano assalire frontalmente.

Aspra resistenza offriva il nemico su tutta la fronte d’attacco, valendosi anche di numerosi nidi di mitragliatrici;

ma, pur tuttavia, la sera del 21, mentre verso nord e nord-est il XXVII corpo progrediva ancora sul terreno assegnatogli, il XXIV (generale Caviglia) già delineava vigorosamente la manovra vittoriosa, espugnando l’Ossoinca, avvicinandosi alla vetta di quota 856 di Oscedrih, occupando il Kuk 711, investendo di fianco e di fronte il caposaldo del Jelenik.

Qui il nemico riusciva a mantenersi con lotta accanita fino alle ore 18 del 22, quando, sopraffatto, doveva volgere in fuga con tutte le poche truppe sfuggite alla morte o alla prigionia.

E subito veniva occupata anche l’altura di quota 747, a sud del Jelenik, ciò che agevolava lo sbalzo innanzi del II corpo, già riuscito a rompere la linea Bavterca - Rutarsce, cosicchè esso poteva portarsi sulle pendici delle alture di quota 652 di Kobilek.

L’entrata in linea di truppe del XIV corpo tra quelle del XXVII, e del XXIV, aumentava la nostra forza d’urto, e ci permetteva di progredire anche nella giornata del 23, sino ad occupare le alture di Kobilek, sebbene la resistenza nemica si fosse accentuata.

Al mattino del 24 incendi ed esplosioni sulla linea Leupa - rovescio dell’Oscedrih - Trusnje - Bitez - Monte Santo facevano supporre che il nemico avesse coperto, con la resistenza del giorno prima, intenzioni di ritirata:

l’ordine di avanzata generale veniva immediatamente lanciato, ma l’iniziativa dei comandanti in sott’ordine, fatti accorti che il nemico cedeva, l’aveva già prevenuto e su tutta la linea le nostre truppe incalzavano vittoriose:

si procedeva oltre il Vogercek, sulle falde delle alture tra il Lom di Canale e l’Isonzo, venivano occupati il Na Gradu e il Veliki Vrh, si raggiungeva la linea Mesnjak - Testen, si scendeva sul margine orientale dell’Oscedrih:

cadevano nelle nostre mani l’altura di quota 627 di Kobilek e la conca di Gargàro e finalmente il tricolore veniva piantato sul Monte Santo, dai reggimenti dell’8.a divisione agli ordini del valoroso generale Cascino, che doveva più tardi lasciare gloriosamente la vita su quel famoso baluardo della difesa austriaca sull’Isonzo.

Nelle giornate successive le nostre truppe progredivano superando la sempre più ostinata resistenza del nemico, che si ingrossava di nuove truppe e di nuove artiglierie, e vincendo con le privazioni e coi sacrifici le difficoltà dei rifornimenti e la mancanza d’acqua, sempre più gravi quanto più esse si allontanavano dalle loro antiche basi.

L’assoluta mancanza di rotabili che, valicando il fiume, adducessero all’altopiano e la grande deficienza su esso di qualsiasi comunicazione, rendevano anche assai arduo l’indispensabile spostamento in avanti delle artiglierie.

Il 31 agosto, toccata la linea: Log Dolenje - Testen - Koprivsche - pendici occidentali del Vrh - Scur - margine occidentale di Okroglo - Vrhovec - alture di quota 920 e 895 - Podlaka - Zagorje, alla fase dell’avanzata, del movimento che ci aveva dato il possesso della maggior parte dell’altopiano, seguiva una fase di assestamento.

537 ufficiali, 19340 uomini di truppa venivano catturati durante la lunga lotta, 125 cannoni, 29 bombarde e lanciabombe, 126 mitragliatrici costituivano i trofei della vittoria.

Mentre il grosso della 2.a armata si impadroniva combattendo e manovrando dell’altopiano di Bainsizza, le truppe dislocate a oriente di Gorizia svolgevano una ardua azione di attacchi locali scarsi di risultati, e la 3.a armata intraprendeva il grande assalto del bastione carsico.

Occorreva qui assalire posizioni dominanti, munite di ordini successivi di trinceramenti, largamente guarnite di artiglierie, formanti un sistema difensivo formidabile.

La mattina del 19 agosto, nel momento stesso in cui i primi combattimenti si impegnavano lungo le pendici occidentali dell’altopiano di Bainsizza, le prime ondate di fanti balzavano all’attacco fuori delle trincee da Gorizia al mare.

Le alture di Cuore e Belpoggio — propaggini settentrionali del Monte San Marco — il grande saliente che le trincee austriache formavano dinanzi a Raccogliano, alla confluenza del Vippacco colla Vertoibizza, le linee di quota 378 a sud-est del Dosso Faiti, la cortina di trincee tra le quote 220, 244 e 251 a nord e a nord-est di Korite venivano presi.

Il XXIII corpo, superando con impeto tutta la prima linea difensiva nemica, trionfando dell’insidia micidiale di numerosi appostamenti di mitragliatrici, giungeva alle prime case di Selo.

Tra l’altopiano carsico ed il mare l’altura di quota 43 e il tunnel ferroviario di San Giovanni di Duino, tenacemente contesi, cadevano nelle nostre mani.

In complesso, il risultato del primo sbalzo offensivo, che è sempre il più fruttifero, era stato scarso contro la dorsale che sale al Trstelj e contro l’Hermada;

solo al centro il XXIII corpo, che aveva terreno meno difficile da superare, potè compiere una sensibile avanzata.

Preoccupato che l’azione potesse condurre ad un grande logoramento delle truppe senza corrispondenti risultati, e già essendo noti i primi ottimi successi della 2.a armata, che lasciavano l’adito allo sfondamento da quella parte, nel mattino del giorno 20, alle ore 9, io partecipavo con fonogramma a S. A. R. il comandante della 3.a armata essere mio intendimento che la ripresa offensiva già stabilita avesse pienamente e liberamente sviluppo solo nella favorevole ipotesi che il combattimento risultasse impegnato per le nostre truppe e le vicende della lotta si delineassero, nel quadro generale delle operazioni, promettitrici di concreti successi tattici.

In caso contrario, ossia nell’ipotesi che la battaglia si affievolisse, o sostasse, o comunque accennasse a risolversi in condizioni molto logoranti di carattere episodico e locale, e quindi di scarsa importanza pel conseguimento degli obbiettivi assegnati all’armata, intendevo che l’azione non fosse per quel giorno ulteriormente alimentata, nell’intento di evitare alle nostre truppe quelle sterili battaglie di logoramento le cui caratteristiche erano ben note a S. A. R.

In questa seconda ipotesi le truppe dovevano sostare nelle posizioni raggiunte, ben inteso convenientemente rettificate, e la futura ripresa offensiva, da considerarsi come problema nuovo, doveva sferrarsi non dopo poche ore di fuoco, ma in seguito ad una fase preparatoria che avrebbe dovuto avere regolare e completo sviluppo.

Il 20 la lotta continuava, resa subito più violenta ed accanita dall’affluire di rinforzi austriaci, dallo scatenarsi di fuochi di sbarramento di intensità senza pari, e tuttavia si progrediva:

l’abitato di Korite veniva oltrepassato, l’altura di quota 130 di Flondar raggiunta da elementi avanzati.

La resistenza austriaca si accentuava il 21 con ripetuti furiosi contrattacchi, i quali tuttavia non impedivano alle nostre truppe di raggiungere il margine occidentale di Castagnavizza, di progredire ad oriente di Korite, di oltrepassare tutto l’abitato di Selo.

La brigata Pallanza, con elementi della brigata Lombardia, resisteva eroicamente a tutti gli sforzi austriaci diretti ad espugnare le posizioni di quota 378.

Ma allora io credetti giunto il momento di ordinare la sospensione della prima fase dell’offensiva, ed alle ore 22 del 21 agosto ne emanai l’ordine ai comandanti delle armate 2.a e 3.a:

La 3.a armata sospendendo le operazioni doveva mantenersi in potenza, pronta a riprendere, quando venisse ordinato, l’attacco degli obbiettivi assegnatile, compatibilmente con le forze e coi mezzi che le rimarrebbero dopo avere effettuate le cessioni che verranno indicate.

Intanto doveva provvedere alla rettifica ed al consolidamento dei vantaggi conseguiti, alla riorganizzazione delle forze, alle eventuali modificazioni dello schieramento delle bombarde e delle artiglierie, alla preparazione insomma del nuovo dispositivo d’attacco.

La 3.a armata, inoltre, non doveva lasciare intentato alcun mezzo che desse al nemico la sensazione di tale atteggiamento potenziale, affinchè, sotto la minaccia della futura ripresa offensiva, non spostasse nè forze, nè artiglierie dall’altopiano carsico all’altopiano di Bainsizza.

L’VIII corpo d’armata, dalle ore 6 del giorno seguente cessava di dipendere tatticamente dalla 3.a armata e rientrava alla completa ed incondizionata dipendenza della 2.a armata.

La 2.a armata doveva proseguire nel prestabilito programma offensivo, includendovi anche l’VIII corpo d’armata ed estendendo la propria fronte operativa fino al Vippacco.

Per quanto riguarda la cessione di forze e di mezzi, di cui ho precedentemente discorso, la 3.a armata doveva:

a) mettere a disposizione del Comando supremo due divisioni, provvisoriamente senza artiglieria;

b) porsi immediatamente in grado di concorrere verso la regione del San Marco, col fuoco di almeno un centinaio di pezzi di grosso e medio calibro (tutti quelli efficacemente impiegabili verso il San Marco) lasciandoli nelle posizioni in cui si trovavano, nella parte settentrionale della zona dell’armata, o di poco variate;

c) cedere subito alla 2.a armata un gruppo di tre batterie da 65 da montagna e 50 batterie di medio calibro, metà a tiro teso (dei seguenti tipi: cannoni da 149 - A, cannoni da 105, cannoni da 102), metà a tiro curvo (dei seguenti tipi: mortai da 210, obici da 149 p. c.).

La cessione doveva farsi entro trenta ore dalla diramazione di questo ordine per le bocche da fuoco già designate per un eventuale invio alla fronte trentina (gruppo da 65 montagna, 12 batterie cannoni da 105, 4 batterie cannoni da 102, 15 batterie obici p. c.);

per le rimanenti doveva essere interamente compiuta entro 48 ore;

d) cedere tosto alla 2.a armata: l’VIII corpo — 4 batterie di bombarde da 240 - G, 2 batterie da 240 - L, e due batterie da 58 - A.

Come emerge da quest’ordine, vista la difficoltà di proseguire l’offensiva sul Carso, avevo prontamente deciso di sospenderla, e stabilito di approfittare della breccia aperta nelle linee di difesa dell’altopiano di Bainsizza per allargarla e di attaccare nel medesimo tempo le alture dell’anfiteatro goriziano sbarazzandoci, finalmente, di questo intoppo.

A realizzare tali intenti, si spostavano truppe ed artiglierie non necessarie, pel momento, sul Carso, dalla 3.a armata alla 2.a, e ordinavo alla 3.a armata di concorrere all’attacco dell’anfiteatro goriziano con un centinaio di pezzi di medio calibro della sua sinistra.

Il 22 segnalavo al Comando della 3.a armata che le operazioni in corso sull’altopiano di Bainsizza e presso Gorizia avrebbero potuto costringere il nemico a considerevoli spostamenti di forze e di artiglierie dal Carso verso nord.

Era perciò indispensabile che la 3.a armata si tenesse pronta a sfruttare, eventualmente, tale favorevole situazione.

Tenendo conto della larga distruzione già effettuata, la detta azione di sfruttamento doveva ridursi a brevissima preparazione di fuoco per completare la distruzione ed esser seguita da immediata irruzione delle fanterie.

Intanto raccomandavo che, per non perdere i vantaggi conseguiti dal XXIII e dal XIII corpo d’armata, fossero perfettamente organizzati i tiri di sbarramento sulla fronte e sui fianchi.

E concludevo con queste parole:

«Si rammenti che sul Carso abbiamo di contro truppe particolarmente addestrate all’esecuzione di attacchi improvvisi e violenti».

Intanto, operazioni di limitata portata si svolgevano sul Carso.

Il 22 il nemico contrattaccava invano a sud di Korite e riusciva invece il 23 a farci ripiegare leggermente sotto la cresta di quota 378, mentre noi gli strappavamo l’altura di quota 244 a oriente di Versic.

Rinnovava il 24 i suoi tentativi di riscossa, ma veniva respinto, e il 25 noi potevamo iniziare i lavori di afforzamento delle nuove linee e le consuete azioni di assestamento e di rettifica, la più importante delle quali si svolse nei giorni 28, 29, 30 agosto e 4 settembre, con un lavorio di infiltrazione che ci consentì di smussare il saliente formato dalla linea austriaca nel vallone di Brestovizza.

La mattina del 4 settembre, con l’appoggio di formidabili concentramenti di fuoco, il nemico — come io avevo preveduto — sferrava un furioso contrattacco su tutta la linea da Castagnavizza al mare.

Validamente contenuto prima, ricacciato poi tra Castagnavizza e Selo, ci costringeva, dopo alterna vicenda ed asprissima lotta, ed approfittando delle condizioni di terreno a noi sfavorevoli, a ripiegare dalle nostre posizioni avanzate nella regione di Flondar.

L’indomani nuovi concentramenti di fuoco d’artiglieria investivano tutta la nostra linea da Castagnavizza al mare:

rinnovati attacchi di fanteria fallivano.

Nei giorni successivi, l’attività combattiva si andava a grado a grado affievolendo sul Carso, fino ad entrare nella normalità dei tiri di molestia e delle ricognizioni di pattuglie.

Dal 19 agosto, 301 ufficiali, 10473 uomini di truppa erano stati fatti prigionieri e 20 cannoni, 69 lanciabombe e bombarde e 196 mitragliatrici erano state catturate dalla 3.a armata.

Così, in totale, oltre le gravissime perdite in morti e feriti inflitte al nemico, perdite di cui si ebbe sicura prova nel ritiro di molte unità dalla fronte e nelle testimonianze dei prigionieri, 858 ufficiali e 29813 uomini di truppa cadevano nelle nostre mani, insieme con 145 cannoni, dei quali 80 di medio e grosso calibro, 98 lanciabombe e bombarde, 322 mitragliatrici, 11196 fucili.

E insieme con i prigionieri e le armi veniva presa una enorme quantità di materiali.

Sull’altopiano di Bainsizza avanzammo per una profondità massima di una diecina di chilometri, occupando un centinaio di chilometri quadrati di territorio.

Tali i risultati della battaglia tra l’Idria e il Timavo, la maggiore fra quante furono da noi combattute durante il tempo in cui ressi la carica di Capo di stato maggiore dell’esercito.

La vittoria che in essa conseguimmo ci assicurò notevoli risultati, dato il carattere di questa guerra;

ma non ci consentì di fare sensibili progressi sul Carso nè di raggiungere il margine dell’altopiano di Bainsizza verso il vallone di Chiapovano.

Accadde in questo caso ciò che sempre si verificò durante tutta la guerra, su tutte le fronti, e che sempre rese ineluttabili tali arresti:

lo sforzo offensivo produsse una determinata penetrazione nell’organismo della difesa, questa volta, anzi, sensibilmente superiore a quello ottenuto nelle precedenti battaglie;

ma, per oltrepassare un certo limite, l’istrumento non è più temprato, lo sforzo rimane sterile, ed è impotente a sfondare l’intero sistema difensivo nemico in tutta la sua profondità.

Troppo ci eravamo allontanati, da questa parte, dal nostro schieramento di artiglieria che era stato fatto sulla destra dell’Isonzo, e non ne avevamo più l’appoggio.

Il nemico, rinforzato in quei giorni di truppe e di artiglieria, si era arrestato su posizioni dominanti le nostre, che coprivano il vallone di Chiapovano e che stava in fretta fortificando.

Per quanto si trattasse di linee improvvisate, non bastava attaccarle, sia pure con grande prevalenza di fanteria, mediante le riserve fatte affluire;

bisognava scuoterle con molta artiglieria, e per trarla innanzi mancavano le strade;

l’unica buona strada era quella da noi stessi costruita che da Plava conduceva al Kuk e al Vodice, ove si arrestava.

Era pertanto necessario di migliorare anzitutto la rete stradale e di portare sulla riva sinistra dell’Isonzo tutto lo schieramento di artiglieria, e tutto questo su un terreno difficile;

nello stesso tempo era d’uopo riordinare i riparti di truppa, farli riposare, sistemare i servizi, perfino quello dell’acqua, provvedere alla costruzione di linee difensive per assicurare le posizioni conquistate.

Se, senza attendere che questo lungo lavoro fosse compiuto, avessi lanciato contro le nuove linee nemiche tutte le riserve ancora disponibili, si sarebbe sicuramente andati incontro a uno di quegli infruttuosi logoramenti, dei quali nelle operazioni del 1915 avevamo fatto così dura esperienza.

Occorreva perciò una lunga sosta.

Ed intanto quali progetti concepiva il Comando supremo:

È ciò che ora esporrò.

Tre partiti si presentavano: attacco della testa di ponte di Tolmino; attacco delle alture dell’anfiteatro goriziano; continuazione dell’attacco sul Carso.

Nel prendere una deliberazione bisognava tener conto del fatto che dei due milioni di colpi di medio e grosso calibro che il Comando aveva stabilito di non superare nel consumo, perchè gli rimanesse almeno un milione e mezzo di scorta per qualsiasi eventualità, una notevole parte era già consumata.

L’attacco della testa di ponte di Tolmino aveva molta importanza per togliere al nemico l’unico sbocco che ancora gli rimaneva sulla destra dell’Isonzo;

ma, da un lato il Comando supremo pensava che questo sbocco avrebbe urtato contro le dominanti e formidabili posizioni costituite dai monti che sorgono intorno alla testata del Iudrio e che si trovavano in nostra mano;

dall’altro lato che l’attacco era estremamente difficile, essendo le difese austriache sistemate nella viva roccia con cannoni e mitragliatrici in caverna, e che meglio conveniva attendere fino a quando si sarebbe potuto combinare un attacco di fronte con un attacco di rovescio dal margine settentrionale dell’altopiano dei Lom, come già si è detto.

L’attacco del XXVII corpo dei precedenti giorni contro il Lom di Tolmino e il Lom di Canale, aveva proceduto molto a rilento, dando tempo al nemico di farvi accorrere truppe e artiglieria e di sistemarvi le difese.

Non si poteva perciò sperare di venire rapidamente a capo di quell’impresa, la cui riuscita avrebbe reso possibile l’attacco di rovescio della testa di ponte di Tolmino:

occorreva ormai una lunga preparazione.

Quanto alla continuazione dell’attacco sul Carso, il Comando supremo aveva già preso la deliberazione di rimandarlo a più tardi, per le seguenti ragioni che esponevo in una lettera del 26 agosto diretta ai Comandi delle armate 2.a e 3.a:

La limitata ripercussione che le operazioni in corso sull’altopiano di Bainsizza avevano avuto sull’altopiano carsico, consigliava di considerare l’eventualità che sulla fronte carsica non si delineasse l’occasione di intraprendere quella improvvisa azione di sfruttamento verso la quale erano stati essenzialmente orientali i preparativi offensivi compiuti dall’armata in quel periodo di attesa potenziale.

Poteva accadere cioè, che il nemico, nonostante il grave sfondamento subito e lo scacco riportato sulla fronte della 2.a armata, conservasse inalterata la propria efficienza difensiva sull’altopiano carsico.

E poichè i mezzi impiegati nell’ultima ripresa offensiva si erano dimostrati non ancora bastevoli a sopraffare la resistenza nemica, e poichè d’altra parte gli attacchi parziali — come l’esperienza carsica insegnava — avevano in sè il germe dell’insuccesso, conseguiva che la futura ripresa offensiva per il raggiungimento dei noti obbiettivi doveva essere predisposta su tutta la fronte dell’armata coi mezzi d’artiglieria e bombarde largamente e sicuramente commisurati allo scopo.

In quest’ordine di vedute io pregavo i comandanti delle due armate di preparare il futuro dispositivo di attacco sulla base di una cessione da parte della 2.a armata alla 3.a di 300 - 400 pezzi di medio calibro, ed inoltre del concorso di tutte le artiglierie dell’ala destra della 2.a armata, efficacemente impiegabili contro obbiettivi della 3.a

L’apparecchio offensivo doveva inoltre essere rinforzato da tutte quelle batterie di bombarde che, in più di quelle esistenti, potevano essere impiegate per il lavoro di distruzione contro le prime linee ed anche contro le seconde, batterie di bombarde da cedersi parimenti alla 3.a armata dalla 2.a, ove, per il momento, non erano più necessarie.

Riserbandomi poi di esaminare a parte il problema della forza, pregavo intanto il comandante della 3.a armata di prendere solleciti accordi col comandante della 2.a e di riferirmene, notificandomi altresì l’epoca in cui riteneva di essere in grado di effettuare l’azione così predisposta, che importava di affrettare.

Come risulta dalla precedente lettera, ancora il 26 agosto il Comando supremo aveva l’intenzione di riprendere le operazioni sul Carso appena le operazioni in corso per parte della 2.a armata avessero avuto termine, per potere, allora, spostare dalla 2.a alla 3.a armata una ingente quantità di artiglierie.

Se non che, fatto il calcolo delle munizioni consumate e di quelle che si sarebbero ancora consumate per ultimare le operazioni della 2.a armata, e considerando che l’operazione del Carso avrebbe richiesto un ingentissimo consumo di munizioni, vi si dovette per il momento rinunziare:

nuova conferma, se ce ne fosse bisogno, del fatto già altre volte sperimentato, che, in una guerra come questa, la strategia e la tattica sono subordinate alla disponibilità di munizioni.

È questa altresì, un’altra conferma del fatto che il Comando supremo non aveva nessun preconcetto sulla direzione verso cui dirigere le operazioni principali:

ma, fermo restando il concetto generale strategico di avanzare verso i grandi obbiettivi di Lubiana e di Trieste, ne subordinava l’esecuzione alle possibilità tattiche del momento e alla disponibilità delle munizioni:

il che è affatto contrario alle intenzioni che scrittori superficiali o malevoli hanno voluto attribuirgli.

Fu allora deciso l’attacco dell’anfiteatro goriziano, il quale, per la minore estensione della fronte di attacco, richiedeva minor consumo di munizioni, e che, in caso di riuscita, avrebbe poi facilitato, in un ulteriore periodo, sia l’avanzata della 2.a armata verso l’altopiano di Ternova, sia il proseguimento delle operazioni della 3.a armata sul Carso.

A tal fine, il 29 agosto emanai un ordine al Comando della 2.a armata (comunicato, per conoscenza, a quello della 3.a), avente per oggetto: «Direttive per il proseguimento delle operazioni» ed inteso a fissare le questioni più salienti e le direttive già da me impartite nello stesso giorno al comandante della 2.a armata nei colloqui avvenuti a Vipulzano:

scrivevo adunque che il consumo di forze e di munizioni incontrato durante l’offensiva, imponevano di ridurre il disegno operativo di quell’armata, essenzialmente per concretare i mezzi e indirizzare lo sforzo offensivo verso quegli obbiettivi la cui conquista potesse avere dirette favorevoli ripercussioni per l’azione della 3.a armata sull’altopiano carsico.

Conseguentemente occorreva:

1.° sospendere per il momento tutte le operazioni offensive, salvo quelle per le quali gli ordini fossero già stati emanati, e che trovassero giustificazione in utili rettifiche di carattere tattico;

2.° provvedere alla organizzazione ed al consolidamento delle posizioni raggiunte, sia nei riguardi della sistemazione fortificatoria, sia nei riguardi dello schieramento dell’artiglieria, sia finalmente nei riguardi delle necessità logistiche, essendo superfluo segnalare che era, questo, problema di importanza vitale da risolversi al più presto ed in modo perfetto;

3.° studiare e preparare un piano di attacco inteso a far cadere, operando da nord verso sud e da ovest verso est (designavo solo le direzioni capitali) tutto il blocco delle organizzazioni difensive nemiche dell’altopiano goriziano, compreso tra il margine meridionale dell’altopiano di Ternova, il Vippacco e il solco del fiume Liah (soglia di Vogersko) per preparare l’ulteriore avanzata della 3.a armata.

Includevo — come era ovvio — nel blocco anche il Monte San Gabriele e il Monte San Daniele e soggiungevo che, all’espugnazione dell’intero anfiteatro dovevano essere rivolte tutte le energie offensive dell’armata, alimentate da uno schieramento di artiglieria che fosse il più formidabile possibile.

Circa l’epoca, doveva esser fatto ogni sforzo per essere in grado di riprendere le azioni offensive alla metà di settembre.

L’attacco fu preparato rapidamente, ma con ogni cura.

Il Comando supremo intendeva sbarazzarsi ad ogni costo di quell’intoppo che rendeva più difficili le ulteriori operazioni offensive.

Furono all’uopo riunite circa 700 artiglierie di medio e grosso calibro ed alcune centinaia di bombarde, specialmente contro la ristretta fronte compresa fra il Monte San Gabriele e il Monte San Marco, oltre, naturalmente, alle artiglierie leggere.

Fu questo, durante la guerra, il massimo concentramento di bocche da fuoco in proporzione allo sviluppo della fronte.

L’VIII corpo doveva attaccare sulla destra verso Gorizia e su la Vertoibizza ed il VI a sinistra.

L’attacco, preceduto da un bombardamento di violenza inaudita, ebbe inizio il 4 settembre.

Fu fatto qualche progresso nei primi tre giorni catturando complessivamente circa 2400 prigionieri, ma, in sostanza, i risultati conseguiti furono di molto inferiori alle speranze concepite, tenuto conto di una così intensa preparazione:

lo spirito combattivo delle truppe non si dimostrò, in generale, all’altezza di quello che era stato nel passato;

cosicchè gli obbiettivi principali che ci proponevamo di raggiungere, rimasero nelle mani del nemico.

Dalla parte del San Gabriele la nostra linea più avanzata rimase sulle falde occidentali del monte, dove si sostenne l’11 e il 12 settembre contro vigorosi contrattacchi nemici.

In quel mentre il comandante della 2.a armata proponeva di stringere il San Gabriele con «assedio di fuoco» convinto che se questo fosse stato notte e giorno bombardato in modo da intercettare in via assoluta le comunicazioni con la zona retrostante, le truppe che l’occupavano sarebbero state costrette a capitolare od a ritirarsi.

Io nutrivo dei forti dubbi sul risultato, pensando che le truppe ben riparate dentro solide caverne non sarebbero state costrette a cedere se non dopo un attacco di fanteria che seguisse immediatamente il bombardamento.

Pure autorizzai questo esperimento;

ma, constatato il fortissimo consumo di munizioni che produceva (circa 15000 colpi al giorno), dopo tre giorni, visto il risultato infruttuoso, ne ordinai la sospensione.

Mentre questi fatti si svolgevano nell’anfiteatro goriziano, gli austriaci, ricevuti rinforzi dalla fronte russo-romena (che già ci venivano segnalati negli ultimi giorni di agosto), sferravano poderosi contrattacchi sull’altopiano di Bainsizza e sul Carso.

Ovunque le nostre posizioni furono mantenute, salvo un lieve indietreggiamento del XXIII corpo verso Selo, al centro del Carso, ed un più forte arretramento del XIII sulle falde dell' Hermada;

quest’ultimo, per la seconda volta in quell’anno, dopo essere pervenuto fin quasi a Medeazza veniva respinto alle trincee di partenza.

Questi contrattacchi riuscirono essenzialmente perchè il nemico vi destinò riparti d’assalto specializzati e perchè, d’altra parte lo spirito combattivo delle nostre truppe non era più quello di prima.

In seguito ai combattimenti della fine di agosto e del principio di settembre, la situazione della 2.a armata era di poco mutata nella conca goriziana.

Dalle falde occidentali del San Gabriele, per la sella di Dol e le alture di Madoni e di Volnik, la nuova linea, occupata da truppe del VI, II e XXIV corpo, faceva fronte ad est e sud-est, parallelamente al vallone di Chiapovano.

Più a nord, e fronte a nord-est e a nord, sulla destra dell’Avschek, si estendeva la linea del XXVII corpo, dominata dall’altopiano dei Lom.

Escluso il proseguimento delle operazioni, appena troncate, nella conca goriziana;

escluse, per il momento e per le ragioni già esposte, nuove operazioni sul Carso, o verso l’altopiano dei Lom e Tolmino, non rimaneva che proseguire l’azione offensiva col VI, II e XXIV corpo verso l’altopiano di Ternova, allo scopo di far cadere da nord i principali capisaldi di difesa della conca goriziana ed avanzare per questa, agevolando così le future operazioni della 3.a armata sul Carso.

L’attacco frontale dell’altopiano di Ternova era certamente operazione assai dura, ma ancor più dure erano le altre allora possibili, poichè, occupando il nemico una linea continua, da qualunque parte ci si rivolgesse, non si poteva evitare la manovra frontale, e quella dell’altopiano di Ternova, se fosse riuscita, era quella che nella situazione di quel momento prometteva i maggiori risultati.

Perciò, il 1.° settembre ordinavo alla 2.a armata che la prossima ripresa offensiva dovesse mirare alla conquista di quegli obbiettivi il cui possesso potesse avere dirette favorevoli ripercussioni per l’azione della 3.a armata sul Carso, intesa cioè a far cadere il blocco delle organizzazioni nemiche dell’anfiteatro goriziano.

Escludevo le operazioni contro i Lom e Tolmino.

Soggiungevo finalmente che, per necessità inerenti alla conveniente preparazione e alla raccolta del minimo munizionamento indispensabile, l’operazione, anzichè per la metà del mese in corso, com’era stato prescritto coll’ordine del 29 agosto, fosse predisposta per la fine di esso.

L’applicazione di questo concetto imponeva un notevole mutamento nello schieramento delle artiglierie e diede perciò luogo ad ingenti trasporti di materiali.

Mentre questi avevano luogo, si dava anche alacre opera alla costruzione della triplice linea di difesa ordinata dal comandante della 2.a armata sull’altopiano di Bainsizza, appena ne era venuto in possesso, come pure delle strade d’accesso al medesimo.

Ma intanto, al nemico continuavano a giungere truppe dalla fronte russo-romena.

Gravi notizie venivano inoltre dalla Russia sulla peggiorata sua situazione interna e sulla ormai irrimediabile disgregazione di quell’esercito.

D’altra parte, notizie attendibili facevano ritenere non improbabile una violenta offensiva austriaca sulla fronte Giulia, offensiva che già sarebbe stata in avanzata preparazione.

Nè si poteva escludere che tale offensiva avesse a pronunciarsi anche altrove, se si teneva conto del segnalato arrivo del corpo alpino bavarese nel settore trentino.

Le forze nemiche a noi di fronte su tutto il teatro della guerra sommavano già a metà di settembre a 527 battaglioni, mentre durante le operazioni del 1916 nel Trentino avevano raggiunto il massimo di 509.

Il munizionamento di medio e grosso calibro era scarso, come già ho detto, e se fosse stato fortemente intaccato in operazioni offensive, non sarebbe poi bastato per far fronte ad un attacco nemico, ed essendo pure scarsissimi gli uomini di complemento, se avessimo intrapreso una nuova grande azione offensiva, ci sarebbe poi mancato il modo di ricostituire le molte unità logorate.

Malgrado la scarsità delle munizioni e dei complementi, qualora non fosse stato probabile l’attacco nemico, il proseguimento dell’offensiva avrebbe avuto il vantaggio di non dar tregua all’avversario e di fiaccarne, almeno per alcuni mesi, la capacità combattiva, con un poderoso colpo pari al precedente;

durante i mesi dell’inverno si sarebbe poi provveduto a ricostituire l’esercito accumulando complementi e munizioni per la primavera del 1918.

Ma le notizie di Russia, l’arrivo di numerose forze nemiche e le notizie sulle intenzioni offensive dell’avversario avevano capovolta la situazione e sarebbe stata per parte nostra, grave imprudenza ostinarci in propositi offensivi, di riuscita tanto meno probabile quanto maggiori sarebbero state le forze nemiche nuovamente trasportate.

D’altra parte, un nuovo colpo non sarebbe stato così redditizio come quello di agosto, perchè diretto contro una fronte ormai stabilizzata e validamente rafforzata di uomini e di cannoni, perchè non avrebbe valso a sconvolgere l’apparecchio offensivo del nemico, perchè nell’ipotesi più favorevole avrebbe solo ritardato l’inizio dell’attacco;

scarso vantaggio questo, di fronte al sicuro e ingente consumo di energie che costituisce l’inevitabile prezzo di tutte le offensive di stile.

Inoltre, anche nel caso di attacco fortunato, si affacciava l’eventualità di raggiungere posizioni di scarso valore difensivo e troppo estese, dalle quali, di fronte ad una controffensiva nemica di stile, sarebbe occorso ritrarsi in posizioni retrostanti che soddisfacessero ai due requisiti della minima estensione e della massima resistenza.

Si aggiunga in ultimo che, nelle condizioni di quel momento, un possibile insuccesso avrebbe avuto gravissima ripercussione sulla resistenza morale dell’esercito e soprattutto del Paese.

In definitiva si può quindi affermare che la determinazione del Comando supremo fu esclusivamente inspirata ad un giusto e concreto apprezzamento della situazione, e che, mentre sul nostro scacchiere si ripercuotevano, con una ingente concentrazione offensiva, i primi effetti della defezione russa, il Comando supremo, subendo la ferrea necessità della difensiva, instaurava quel regime di guerra che, in seguito, i capi militari delle potenze alleate riuniti a Versailles, riconoscevano come il solo atto a controbilanciare con successo l’aumentata potenzialità offensiva delle potenze centrali, fino a che si rendesse efficace l’aiuto americano.

Deciso, per tali gravissime ragioni, di sospendere l’offensiva, tosto comunicai tale decisione ai Comandi delle armate 2.a e 3.a colla seguente lettera del 18 settembre, avente per oggetto: «Predisposizioni difensive» — lettera che è fondamentale nella valutazione degli avvenimenti che seguirono:

«Il continuo accrescersi delle forze avversarie sulla fronte Giulia fa ritenere probabile che il nemico si proponga di sferrare quivi prossimamente un serio attacco, tanto più violento quanto più ingenti forze esso potrà distogliere dalla fronte russa, dove la situazione sembra precipitare a tutto vantaggio dei nostri avversari.

«Tenuto conto di ciò, della situazione dei complementi e del munizionamento, ben note a V. A. R. (a V. E.), decido di rinunciare alle progettate operazioni offensive e di concentrare ogni attività nelle predisposizioni per la difesa ad oltranza, affinchè il possibile attacco ci trovi validamente preparati a rintuzzarlo.

«A tale precisa direttiva prego pertanto V. A. R. (V. E.) di orientare fin d’ora ogni predisposizione, l’attività delle truppe, lo schieramento delle artiglierie ed il grado di urgenza dei lavori.»

Tale ordine fu emanato 36 giorni prima dell’inizio dell’attacco nemico.

Nessuno dirà che sia mancato il tempo pei preparativi necessari a fronteggiare l’attacco, per la correzione delle linee di difesa se ce ne fosse stato bisogno e pel passaggio dallo schieramento offensivo delle artiglierie a quello difensivo.

Contemporaneamente davo partecipazione ai capi di stato maggiore degli eserciti alleati di tale decisione.

Una lettera del 21 settembre, nella quale se ne esponevano le ragioni, terminava colle seguenti parole:

«Concludendo, se la situazione russa dovesse precipitare anche maggiormente, noi potremmo trovarci già in questo scorcio di stagione operativa e, certamente, a primavera, di fronte a un nemico decisamente superiore di numero ed animato dal proposito di attaccarci a fondo.

«Perciò, il Comando supremo italiano, considerando che un eventuale insuccesso potrebbe avere gravissime conseguenze per la causa comune degli alleati, e che tale insuccesso si produrrebbe fatalmente qualora l’attacco nemico ci cogliesse in crisi di complementi e di munizioni, ho dovuto, pur con vivissimo rincrescimento, prendere la decisione di sospendere gli apprestamenti per la progettata ripresa offensiva, e di provvedere invece per riordinare le forze e predisporre una salda difesa ad oltranza su tutta la fronte, in modo che nessuno degli avvenimenti che potrebbero derivare dalla mutata situazione russa abbia a trovarci impreparati, nè ora, nè a primavera del 1918.

«Quanto sopra il Comando supremo italiano ha il dovere di portare a conoscenza degli alti Comandi alleati».

Ma, delle esposte ragioni poco si mostrarono persuasi gli stati maggiori alleati.

Alla vicina offensiva austriaca, fino all’ultimo momento essi non credettero, e non compresero le esigenze della nostra fronte, come non ne avevano mai prima compresa l’importanza.

Nel convegno di Parigi di fine luglio era stata promessa, come già dissi, una grande offensiva, mentre gli alleati avrebbero desiderato che ne svolgessimo due per le quali ci mancavano i mezzi.

Noi avevamo mantenuto larga fede ai patti, poichè avevamo condotta a fondo un’offensiva multipla, di grandissimo stile, di lunga durata e di molto frutto per quel che riguardava il logoramento del nemico.

Agli alleati sembrò forse che le operazioni ulteriori, alle quali il Comando supremo aveva rinunciato, non fossero che il proseguimento dell’offensiva compiuta, mentre, in realtà, erano da considerarsi come una nuova offensiva.

Questi equivoci ebbero per conseguenza un vivace scambio di telegrammi e il ritiro delle 99 bocche da fuoco franco-inglesi che fin dalla primavera erano giunte sulla nostra fronte, nonchè delle 102 francesi che stavano arrivando;

imperocchè, ci fu detto, esse erano state inviate a scopo offensivo e non difensivo.

Il momentaneo disaccordo cogli alleati non sarebbe sorto, nè equivoci avrebbero potuto manifestarsi se, fin d’allora, fosse esistito l’organo interalleato che doveva nascere un mese e mezzo dopo, ma solo dopo la triste esperienza di Caporetto:

Debbo ancora soggiungere che il 28 settembre io partecipavo a Roma ad un consiglio di ministri ai quali esposi tutte le ragioni che mi avevano persuaso a sospendere l’offensiva — ragioni che furono unanimemente approvate.

Dirò finalmente, per terminare la storia degli avvenimenti della seconda metà di settembre, che il 19 di quel mese veniva dato un nuovo ordinamento alla fronte tridentina.

La 6.a armata era soppressa.

La Val Sugana col XVIII corpo passava alla dipendenza della 4.a armata;

si ricostituiva il Comando delle truppe dell’altopiano di Asiago, ritornando agli ordini del Comando della 1.a armata come al tempo dell’offensiva austriaca del 1916 dal Trentino.

Riassumendo, la battaglia fra l’Idria e il Timavo ebbe risultati scarsi sul Carso, quasi nulli nell’anfiteatro goriziano, notevoli sull’altopiano di Bainsizza.

Il risultato strategico sarebbe stato grande se avessimo potuto giungere alle alture dominanti il vallone di Chiapovano, intercettando la importantissima linea di arroccamento che vi passa e che congiunge il fascio stradale affluente a Tolmino con quello che converge su Gorizia;

in tal caso le due masse nemiche sarebbero rimaste disgiunte e non avrebbero più trovato vie di collegamento che molto più indietro, cioè verso il meridiano di Idria.

Ma, se i risultati territoriali della battaglia furono scarsi, notevoli ne furono le conseguenze militari.

Nel periodo antecedente alla medesima, l’armata austriaca dell’Isonzo gravitava col grosso delle sue forze, verso il Carso, e il tratto della fronte corrispondente al medio Isonzo, giudicato quasi inattaccabile, era considerato dal nemico una fronte morta da difendersi con poche truppe.

Dopo la nostra offensiva, e tenuto conto del pericolo imminente che noi potessimo giungere al vallone di Chiapovano spezzando la fronte Tolmino - Gorizia, il settore della Bainsizza assunse ad un tratto importanza uguale a quella del Carso.

E se ne accorse così bene il nemico, che in pochi giorni accrebbe le sue forze portandole a più del doppio di quanto fossero prima;

la qual cosa procurò a tutta l’Intesa il vantaggio di immobilizzare sulla nostra fronte una maggior quantità di forze nemiche, accrescendo l’importanza della fronte stessa.

La persuasione del valore di questa fronte andava in quel tempo facendosi strada;

infatti già dicevano i nemici, e incominciavano a dire gli alleati, che la fronte italiana fosse la più importante dell’intero teatro di guerra europeo.

Ma, indipendentemente dai risultati strategici, la battaglia ebbe risultati morali grandissimi.

In Italia e fuori essa fu celebrata come una delle più grandiose operazioni della guerra europea, sia per la quantità di forze impegnate, sia per le enormi difficoltà del terreno che l’esercito seppe superare.

Ed invero, il passaggio di viva forza di un fiume inguadabile fu sempre considerato come una delle imprese più difficili che la guerra presenti.

Ma il passarlo con grandi masse di truppa attraverso gole montane, il gettare 14 ponti in condizioni difficilissime di terreno e sotto il fuoco nemico, lo scalare subito dopo una ripida falda montana alta 500 metri espugnando tre successive e fortissime linee di difesa, il condurre interi corpi d’armata sul sovrastante altopiano privo di buone strade, di risorse e perfino d’acqua, ed ivi rapidamente organizzare tutti i servizi e trasportare tutte le grosse artiglierie, fu impresa nuova negli annali della guerra.

Crebbe grandemente il prestigio dell’esercito.

Lo sentì il nemico, che temendo per la vicina Trieste, si affrettò ad organizzare una grande offensiva per riconquistare il territorio ed il prestigio perduto.

Non adunque dai chilometri quadrati di terreno conquistato si deve valutare l’importanza di questa grande nostra vittoria e di quelle del 1915 e del 1916, così sanguinosamente e faticosamente ottenute, ma piuttosto dall’aumentato prestigio dell’esercito e del Paese e dal servizio reso alla causa degli alleati — che era poi la nostra — col costringere il nemico ad immobilizzare grandi forze contro di noi, distogliendole dagli altri teatri di guerra, ove avrebbero portato un contributo decisivo;

col logorarlo in uomini e in risorse, in attesa di quel giorno in cui il suo organismo avrebbe dovuto in un colpo precipitare e sfasciarsi.

Nessuno ha manifestato questo pensiero, meglio di un nostro nemico, il maresciallo Ludendorff;

il quale, a pag. 384 del suo libro, così scive:

«Sulla fronte dell’Isonzo, alla fine dell’agosto 1917, l’11.a battaglia dell’Isonzo era cominciata su di una fronte di 70 chilometri, ed era terminata col guadagno degli italiani.

Al principio di settembre la lotta era stata accanitamente ripresa ed essa era riuscita di nuovo ricca di successo per l’esercito italiano.

Le armate imperiali avevano veramente resistito, ma le loro perdite sui monti del Carso erano state così rilevanti, il loro spirito era così scosso, che le autorità militari e politiche competenti dell’Austria-Ungheria erano convinte che le armate imperiali non avrebbero potuto continuare la lotta e sostenere una dodicesima battaglia dell’Isonzo.»

E già precedentemente, lo stesso maresciallo Ludendorff, come già dissi altrove, e ora ripeto, in una intervista col Sozialdemokraten di Stoccolma, aveva espresso i seguenti concetti, riportati dai nostri giornali del 17 marzo 1919:

«Le cause della sconfitta furono la difettosa strategia di Moltke, l’inabile direzione di Falkenhayn, il cattivo servizio di informazioni e specialmente il mancato appoggio da parte dell’Austria sempre più stretta alla gola dall’Italia;

se l’Austria avesse potuto avere libera una parte delle sue divisioni e mandarle in Germania, la guerra sarebbe stata vinta dagli Imperi centrali, che non avrebbero temuti i rinforzi americani».

Dunque il grande, incommensurabile servizio che noi abbiamo reso alla causa comune, dal quale è derivata la comune vittoria, fu quello di prendere alla gola l’Austria durante tutta la durata della guerra.

Ora, avremmo noi potuto ottenere questo risultato diversamente che attaccandola con tutta l’energia di cui eravamo capaci:

Era possibile di far ciò, evitando le grandi perdite specialmente nella prima fase della guerra, quando alla virtù del soldato erano così lontani dal corrispondere gli indispensabili mezzi materiali: