Voci della Grande Guerra

I discorsi della guerra: con alcune note Frase: #15

Torna alla pagina di ricerca

AutoreSalandra, Antonio
Professione AutorePolitico
EditoreTreves
LuogoMilano
Data1922
Genere TestualeDiscorsi
BibliotecaLibrary of Congress (Internet Archive)
N Pagine TotXVI, 208
N Pagine Pref16
N Pagine Txt208
Parti Gold141-162 (22)
Digitalizzato Orig
Rilevanza3/3
CopyrightNo

Contenuto

Espandi

Dopo Caporetto.

14 novembre 1917.

Alla vigilia della convocazione della Camera, dopo i giorni nefasti di Caporetto, il Capo del Governo, onorevole Orlando, volle con opportuno consiglio provvedere a che la tornata parlamentare, evitando ogni tumultuario increscioso scoppio di recriminazioni e di dissensi, riuscisse una composta solenne manifestazione del comune proposito di resistenza e di riscossa e un valevole incitamento al Paese a sorreggere l’Esercito e il Governo nella dura prova.

A tal fine l’onorevole Orlando si rivolse al Presidente della Camera, onorevole Marcora, il quale, ottenuto da ciascuno l’assenso preventivo, convocò presso di sè i quattro ex-presidenti del Consiglio allora deputati, onorevoli Boselli, Luzzatti, Giolitti e Salandra per intendersi sull’indirizzo da dare alla prossima prima seduta.

Questi, in due conferenze tenute presso il Presidente della Camera con l’intervento del Presidente del Consiglio in carica, stabilirono che ciascuno di loro avrebbe brevemente parlato e che l’onorevole Boselli — il più anziano per età — avrebbe presentato un ordine del giorno di affermazione della concordia nazionale e di fiducia nell’esercito e negli alleati.

Quest’ordine del giorno fu approvato nella seduta stessa a grandissima maggioranza.

Onorevoli Colleghi:

Militammo già, militeremo poi in campi avversi di politiche e sociali competizioni.

Oggi siamo fratelli d’arme in faccia al comune nemico.

Nessuno oggi può negare la necessità della resistenza più tenace contro l’invasore che minaccia, calpesta e distrugge le terre, le case, i templi e le libertà degli Italiani.

Con tragica fatalità si riproducono i ricorsi di una storia due volte millenaria.

Gli eterni nemici della gente nostra, raccolte le forze sotto una ferrea unità di comando, sono quei medesimi che fronteggiammo con alterna secolare vicenda.

Orde di Alemanni, di Ungari, di Tartari corrono di nuovo le terre tante volte contese su cui Roma impresse indelebili i segni della civiltà latina.

Auguriamoci prossimo l’avvento della pacifica convivenza fra le Nazioni e adoperiamoci con ogni mezzo per conseguirla;

ma guardiamo in faccia alla dura realtà odierna di un rinnovato immenso conflitto di razze e di genti che non sarà risoluto se non con la forza.

E forza di braccia, di mezzi materiali, di opere, di sentimenti chiede la patria pericolante a tutti, niuno escluso, i suoi cittadini.

L’Italia non è sola.

Essa, combattendo e soffrendo per sè, combatte e soffre per la libertà del mondo.

Le si stringono attorno popoli magnanimi che della libertà del mondo furono i primi assertori e propugnatori.

Riconoscono essi il loro debito di solidarietà verso di noi e l’assolvono già con mezzi che promettono adeguati allo scopo.

In essi dobbiamo aver fede, ma sopratutto inspirare fede.

Ma non dimentichiamo, onorevoli colleghi, che nessun popolo può dovere se non sopratutto a sè medesimo la salvazione e la riscossa.

Il concorso degli Alleati non può in alcun modo attenuare il nostro sforzo, che deve raggiungere il massimo della sua possibile intensità.

Solo a questo patto potremo valercene senza menomazione della nostra dignità e del nostro onore.

Tale è l’impegno solenne che oggi la rappresentanza nazionale assume in cospetto del mondo civile e della storia.

Dobbiamo essere del Governo militi fedeli e disciplinati per raccogliere intorno ad esso, con infaticabile apostolato, la disciplinata operosità dei cittadini.

Consideriamoci, come siamo ormai, tutti combattenti ed adempiamo il nostro dovere sotto gli ordini di capi liberamente accettati.

Agli Italiani d’ogni ceto dobbiamo dire con l’esempio e con la parola che l’ora è suonata nella quale si decideranno forse per secoli i destini delle loro case, della loro progenie, della libertà e del nome d’Italia;

e non vi è sacrificio, per quanto duro, che sia soverchio per la conservazione di questi beni inestimabili.

L’onore d’Italia, l’onore di ciascuno di noi, esige che agli Italiani scacciati dalle terre e dalle case arricchite e nobilitate da diuturno assiduo lavoro sia apprestato ogni possibile sussidio, che si attenui il dolore e l’angoscia del temporaneo esilio, ma sopratutto sia data la consolante persuasione che, per quanto grandi dovranno essere gli sforzi che ci s’impongono, noi li sopporteremo volonterosi, finchè non li avremo trionfalmente reintegrati nelle avite sedi.

O amici e fratelli della nobilissima regione veneta, che tutti gli Italiani hanno vivificata delle loro speranze, delle loro gioie, dei loro dolori;

o cara a tutti noi terra del Friuli, dove il cuore d’Italia ha battuto per trenta mesi, animato dal sangue più puro delle nostre vene, accogliete con animo saldo e fidente la nostra promessa:

con voi e per voi, per il nome e per la grandezza d’Italia, riconquisteremo i suoi termini sacri.

La celebrazione della vittoria.

20 novembre 1918.

Il 20 novembre 1918 — il giorno stesso, nel quale la definitiva vittoria fu annunziata al Parlamento dal Presidente del Consiglio — le associazioni politiche intitolate Fascio parlamentare e Fascio romano per la difesa nazionale vollero che essa fosse celebrata con una grande manifestazione popolare indetta all’Augusteo.

V’intervennero i rappresentanti delle potenze alleate.

Oratori designati furono, insieme al deputato Salandra, i deputati Girardini e Raimondi, Attilio Hortis per Trieste e l’onorevole Piscel per Trento.

L’onorevole Salandra fu fatto segno a una imponente entusiastica manifestazione, alla quale si riferiscono le prime parole del suo discorso.

Il testo completo del discorso, stenograficamente raccolto, fu pubblicato, non senza parecchie inesattezze, in molti giornali e in un fascicolo, a cura dei Fasci, insieme al discorso pronunciato lo stesso giorno alla Camera dal Presidente del Consiglio, onorevole Orlando.

Cittadini, italiani, amici, A voi che nei giorni angosciosi del dubbio, nei giorni dei sanguinosi contrastati successi, nei giorni nefasti delle immeritate sciagure, manteneste saldo il cuore, viva la speranza, ardente la fede;

a voi che sorreggeste l’anima eroica dei combattenti e ricacciaste nell’ombra i pavidi, gli scettici, i consiglieri di viltà;

a voi rendo grazie con tutta la effusione dell’anima per questa commovente dimostrazione di memore affetto.

Essa trascende ogni mio merito.

Essa mi sarebbe compenso di ogni mia fatica, di ogni mio dolore, se già non mi fosse stato larghissimo compenso aver veduto, prima che gli occhi stanchi si chiudano alla luce, avverati i sogni più cari e più audaci della età giovanile, realizzate le visioni di altissimi ideali per i quali ci inducemmo a gettare nella voragine infiammata dove si plasmava la nuova storia del mondo non le nostre vite, miserabile olocausto, ma le energie di tutta intera una generazione, ma la esistenza stessa della Patria dilettissima.

Ma non a un uomo, non ad alcuni uomini può spettare il vanto, la gloria, d’aver compiuta una così grande impresa.

Per valutarla in tutta la grandiosità sua, dovremmo poter uscire da noi stessi;

dovremmo collocarci dal punto di veduta delle generazioni future.

Così la imponente maestà delle Alpi nostre, sì, nostre per sempre, non può essere riconosciuta in tutta la sua grandiosa immensità se non da chi le riguardi di lontano, dal piano benedetto, donde ricacciammo per l’ultima volta, con la spada nelle reni, l’invadente barbarie.

Dirà la storia che l’Italia costretta in una lega contro natura dai confini assegnatile dopo una guerra senza vittoria e senza gloria, il giorno in cui scoppiò la crisi mondiale per deliberato volere dei sopraffattori, ai quali la Provvidenza che intendeva perderli tolse il lume dell’intelletto (applausi), l’Italia, forte del suo diritto, del suo buon diritto (applausi ripetuti), non volle aderire all’aggressione.

Essa respinse la tentazione di laute offerte di territori e di colonie altrui (applausi);

essa intese che dalla partecipazione nell’assassinio sarebbe uscita forse più vasta, più ricca, ma certamente disonorata, maledetta, asservita per sempre.

(Voci:

«È vero:».

Applausi).

Il nostro rifiuto rese possibile la prima e più decisiva difesa.

Parigi fu salva sopratutto per il genio militare e l’indomito coraggio della gente di Francia;

ma fu salva ancora per l’eroica inattesa resistenza del Belgio santificato dal sacrificio;

fu salva ancora perchè Roma si rifiutò al fratricidio.

(Applausi fragorosi.

Grida:

«Viva la Francia:)

Da quel giorno memorabile un vincolo ideale indissolubile si è stretto tra le due grandi gloriose metropoli della civiltà latina.

Dirà la storia che, svincolati dalle molteplici reti di capziosi negoziati, noi, dopo una rapida preparazione delle armi e degli animi, del cui sforzo vi potete rendere conto voi che sapete quello che eravamo e quello che avremmo dovuto essere (voci: «purtroppo:» Applausi), l' Italia lealmente entrò nel conflitto mondiale in un momento nel quale le sorti volgevano avverse ai difensori della libertà del mondo.

Per le nostre aspirazioni nazionali, ma anche per la libertà del mondo, noi entrammo nella guerra;

e concorremmo una seconda volta a salvarla.

(Applausi prolungati).

Dirà la storia che, superato con un miracolo di resistenza morale un terribile momento, gli Italiani, dopo quaranta mesi di sacrifizi inauditi, dettero l' ultimo crollo alla mostruosa impalcatura imperiale che aduggiava l' Europa e

la ingombra ancora con i suoi rottami.

(Applausi vivissimi).

La battaglia, che noi abbiamo vinta, non ha riscontro se non forse risalendo di secoli e secoli fino alla disfatta dei Cimbri, che, rotte le chiuse delle Alpi, nella violata valle del Po trovarono dopo lunga stagione la cattura e la morte.

Ma fu allora lo sterminio di un’orda:

è stato oggi lo sterminio di un impero.

(Applausi fragorosi).

Dopo undici secoli Roma rinata a nuova grandezza ha rivendicato il sacrilegio compiuto nei tempi più oscuri e più abietti della sua storia, quando in Roma fu consacrato il medievale impero germanico.

Noi ne abbiamo spazzate le ultime vestigia.

(Applausi).

Noi abbiamo definitivamente e per sempre conquistato i nostri termini sacri e con essi le sicure guarentigie della nostra indipendenza.

Noi li abbiamo conquistati per virtù nostra.

Nessuno ce li può negare;

nessuno mai ce li potrà togliere.

(Applausi vivissimi e prolungati).

L’Italia è restaurata nei confini di Augusto:

augusta essa stessa ma non imperiale.

Roma imperiale non ha eredi.

Chiunque ha voluto accostarsi, uomini o nazioni, al suo fatale retaggio ne è rimasto travolto.

Roma italiana, soddisfatta dell’esser suo, Roma italiana non chiede se non il diritto di partecipare, insieme ai popoli che hanno acquistato col sangue e coi sacrifici la facoltà di dirigere le sorti del mondo, all’opera di incivilimento che ancora rimane a compiere.

(Vivissimi applausi).

Se così io parlo al cospetto dei rappresentanti delle grandi nazioni, che ci dettero generoso fraterno concorso e che del nostro concorso si valsero;

se io parlo questo linguaggio di Italiano a Italiani e stranieri, un grande fatto, una grande mutazione ha dovuto avvenire nella nostra vita.

(Applausi ripetuti).

Già dissi che non a un uomo, non ad alcuni uomini può risalirne la gloria ed il vanto.

Più ancora:

esso non può risalire unicamente a questa generazione, che pure ha profuso per la grande impresa tanto tesoro di vite e di averi.

Noi non avremmo potuto compiere quest’opera se non ci fosse toccato in sorte di essere gli interpreti e i rappresentanti di molte generazioni già spente: di essere gli interpreti e i rappresentanti dei martiri, dei poeti, degli statisti, dei duci e dei soldati, dei principi e dei popolani, dei grandi e degli umili, di tutti coloro che questa Italia amarono, che questa Italia vollero, che questa Italia cantarono, di tutti coloro che per essa operarono, di tutti coloro che per essa soffrirono, di tutti coloro che per essa morirono.

(Vivissimi e prolungati applausi).

L’anima loro vibra nelle anime nostre.

È l’Italia immortale che s’è desta, onusta delle sue glorie e delle sue sventure, che ha voluto riconquistare il suo seggio, ha voluto sublimarsi nel giorno in cui si decidevano i fati del mondo.

(Applausi).

Ma, o amici, voce ben più eloquente che non sia la mia celebrerà degnamente la grandezza della nostra vittoria.

Io voglio soggiungervi poche altre parole.

Le quali forse voi non desiderate perchè potrebbero in qualche modo turbare la letizia che investe gli animi vostri.

Ma i tempi volgono tali, che gli eventi incalzano come le onde di un mare in tempesta.

Io reputerei mia colpa se indugiassi in questa ora solenne a dirvi tutto il mio pensiero.

Voi vorrete perdonarmi, poichè — oso dirlo con piena e sicura coscienza — nessun interesse, nessuna personale veduta mi sospinge.

Al Paese, che ho servito con tutta l’anima mia, io non ho altro da chiedere se non che il mio Signore licenzi il suo servo.

Al Paese che — consentite che io lo dica con intima soddisfazione — al Paese che mi crede, io voglio ancora esprimere alcune verità le quali occorre che siano dette, al suo cospetto, a coloro che in tutti i gradi più elevati della politica, della economia, della vita sociale, ne dirigono le sorti.

Immenso, glorioso il cammino che abbiamo percorso;

ma la mèta non è ancora raggiunta.

Non è venuto ancora il giorno del riposo.

Se vogliamo lasciare ai nostri figliuoli un mondo migliore, il còmpito nostro non è ancora esaurito.

È ancora da sistemarsi il retaggio di tre grandi imperi territorialmente disfatti.

I principii della nazionalità e della autodecisione dei popoli, così sapientemente formulati e che debbono illuminare il mondo come fari, dovranno pur discendere non senza difficoltà nelle determinazioni concrete.

L’Europa, l’Europa di cui tanto abbiamo sentito parlare come di un’unica collettività politica, l’Europa non è più.

Essa fu spenta;

essa fu uccisa da coloro che volevano dominarla.

La politica mondiale, che costoro volevano inaugurare sotto il loro imperio, è diventata e rimane tuttavia una necessità della storia presente.

Politica nella quale l’Italia sarà ben contenta di trovare il suo posto;

poichè non era nei confini territoriali dell’Europa che l’espansione della nostra razza si potesse compiere, come non s’è mai, per la nostra situazione, compiuta.

(Applausi).

Ma pensate, pensate o amici, o cittadini, quale vasta complessità di problemi internazionali siano ancora da risolvere, e come la risoluzione loro richieda che il nostro paese resti al suo posto sereno, compatto, disciplinato a sorreggere coloro che avranno l’alto onore di difenderne le sorti.

(Applausi).

Altrettanto grande, altrettanto urgente è il problema interno che la guerra ha imposto a tutti gli Stati.

Noi dobbiamo trasmettere il potere al popolo dei combattenti.

Questo è il nostro dovere;

ed è bene riconoscerlo.

(Applausi, grida di:

«Viva l’esercito:»).

Ma la trasmissione del potere deve avvenire nell’ordine e nella legge:

non deve essere una violenta presa di possesso.

Dalla violenza e dal terrore non può derivare mai che il despotismo, il cui maggior strumento è l’anarchia.

(Applausi).

Oggi ancora autorevolmente è stato detto che la guerra è rivoluzione.

Sì, grande, santissima rivoluzione;

ma deve essere rivoluzione civile e umana:

altrimenti, nonostante lo sforzo che abbiamo compiuto, potrà esserne inabissata la civiltà, potrà esserne perduto il frutto di secoli di lavoro e di progresso.

(Acclamazioni;

grida:

«Abbasso il bolscevismo:»).

Ad affrontare questo immenso problema occorre che noi ci prepariamo rinnovando l’anima nostra.

Vengano avanti i giovani;

è il loro momento.

Non l’avvenire, il presente è loro, deve essere loro.

I vecchi che non vogliono ritrarsi sappiano ringiovanire.

(Applausi).

Nessuno pensi che passata la tempesta sia possibile un pacifico ritorno all’antico.

La guerra ha un significato profondo di rinnovamento del mondo.

Nessuno pensi che possano più riprendersi le antiche consuetudini di vita riposata.

Nel mondo non v’è più posto per gli inetti, per i pigri, per i furbi volgari.

Nel mondo che si rinnova non vi è più posto se non per chi crede e per chi lavora:

lavoro e fede;

ecco la formula del mondo dell’avvenire.

Ma affrontiamo ogni problema.

Sono i nostri ordini politici tali da esaurire i còmpiti ai quali ho accennato:

Risponderò:

la questione della forma di Governo, che ad un tratto è sorta in molta parte di Europa, non ha ragione di essere in Italia.

(Clamorose grida di:

«Viva il Re:»).

Mentre da ogni parte intorno a noi crollano i troni, si dileguano come polvere al vento le più vetuste monarchie, il Re d’Italia, che ha vissuta la guerra dal primo all’ultimo giorno, ritorna circondato dell’affetto del suo popolo e della stima del mondo.

(«Viva il Re:».

La musica intona la Marcia reale;

le bandiere sono sollevate e agitate).

Vittorio Emanuele III non fantastica di mandati di Dio affidati a lui o alla sua casa.

Egli sa, egli intende che l’ufficio suo è un’altissima magistratura civile da esercitarsi nel solo interesse dello Stato.

Ed io qui voglio solennemente affermare, non come una mia ipotesi sentimentale ma come testimone innanzi alla storia, che, se nel maggio 1915 le supreme rappresentanze della Nazione non avessero aderito alla via perigliosa che il Re aveva liberamente prescelta, Vittorio Emanuele III non avrebbe assistito alla menomazione del suo nome e alla rinunzia dell’Italia alle integrali aspirazioni nazionali.

(Sensazione, acclamazioni al Re).

Ma nell’orbita della costituzione noi, o colleghi, dobbiamo riconoscere che i nostri ordinamenti politici e amministrativi, per consenso della grande maggioranza del Paese, non rispondono più ai bisogni dei nuovi tempi.

Grandi e ardite riforme occorrono.

Occorre sopratutto che le rappresentanze supreme della nazione non siano o possano essere più manipolate in una vecchia casa dove si accumulano antiche e nuove simonie;

ma debbano uscire ringagliardite e vigorose dai liberi dibattiti di un popolo libero.

(Voci:

«le elezioni di Palazzo Braschi:» risate, applausi).

Lungi da me, o amici, il pensiero di esporvi un programma politico.

Questo solo voglio dirvi: che ad affrontare i problemi dei quali io vi ho dato un cenno fugace non basta un gruppo, non basta un partito.

Occorre che la compagine la quale si è costituita per mantenere saldi gli animi, per sorreggere la difesa nazionale nel tempo della guerra, si mantenga tuttavia salda con spirito di sacrificio e di disciplina per il rinnovamento civile e sociale della nazione.

(Benissimo:)

Occorre che i Fasci sopravvivano alla guerra: non che siano chiusi circoli avversi ad altre formazioni politiche, animati da rancori, da recriminazioni, da odii, ma che siano falangi operose aperte a tutti gli uomini di buona volontà, quale che sia la loro provenienza, quale che sia il loro passato.

(Benissimo:

Applausi).

I grandi problemi che tuttora ci premono noi possiamo affrontarli, noi li affronteremo, oso dirlo, con sereno ottimismo.

Ardua è ancora per questo nostro popolo la via della ascesa verso i beni supremi dell’umanità.

Ma noi la percorreremo, noi la conquisteremo, perchè nel nostro cammino ci illumina e ci riscalda il sole della vittoria.

Essa, l’alata Diva, non deve inspirarci tracotanza, sopraffazione, ebbrezza;

essa deve darci sicura coscienza, fiducia piena nella energia della nostra stirpe a cui è toccato ancora una volta di maravigliare di sè il mondo.

(Applausi).

Uomini e Governi saranno ancora logorati e consunti.

Codici e istituzioni muteranno.

Si trasformeranno antiche consuetudini di vita e di rapporti sociali.

Vecchi venerati idoli cadranno rovesciati e infranti.

Non importa:

Non importa:

Se gli Italiani sapranno essere, come hanno saputo essere, disposti al sacrificio e alla disciplina, dalla crisi, che ora si è aperta, della pace, l’Italia uscirà più grande e più onorata, come è uscita dalla crisi della guerra.

A Lei immanente, immortale, eterna; a Lei assunta nei cieli della storia fra gli effluvi purissimi del sangue dei suoi figli migliori; a Lei giuriamo di consacrare quello che ancora ci resta di forza e di vita.

Viva l’Italia:

Viva sempre e sopra tutto l’Italia:

(Applausi fragorosi e incessanti grida di viva Salandra raccolgono la chiusa del discorso).