Guerra e fede: frammenti politici Frase: #3
Autore | Gentile, Giovanni |
---|---|
Professione Autore | Filosofo, intellettuale, politico |
Editore | Riccardi |
Luogo | Napoli |
Data | 1919 |
Genere Testuale | Saggio |
Biblioteca | Pisa, Filosofia e storia |
N Pagine Tot | XI, 381 |
N Pagine Pref | 11 |
N Pagine Txt | 381 |
Parti Gold | [79-109] + [110-139] |
Digitalizzato Orig | No |
Rilevanza | 2/3 |
Copyright | No |
Contenuto
EspandiXII.
LA COLPA COMUNE.
Se la rotta di Caporetto è uno degli effetti culminanti più dolorosi, anzi il più doloroso, di una debolezza italiana, di cui siamo responsabili tutti, gli uni per aver fatto e gli altri per aver lasciato fare, la ricerca più importante e più urgente ora non è quella degli errori parziali e di quelle colpe singole che possono addebitarsi a generali e ad uomini di governo, ma quella indirizzata a scoprire la prima radice del male, in fondo alla nostra stessa coscienza nazionale.
Giacché questa avrà assai più guadagnato dalla sconfitta di quanto non avrebbe guadagnato dalla vittoria, se saprà ricavarne il senso vivo dei suoi difetti e l’impulso efficace a una rentegrazione vigorosa, risoluta, illuminata delle proprie energie.
Il problema militare è sostanzialmente problema politico per una doppia ragione:
in primo luogo perché tutte le manchevolezze dell’esercito derivano dall’incuria politica dei suoi bisogni, che richiedono un’opera lunga, lenta, che importa non solo gravi oneri finanziari, affrontati coraggiosamente e volenterosamente, ma anche un saldo e profondo convincimento, largamente diffuso, delle vitali funzioni affidate all’esercito nell’interesse dello Stato, democratico, ma geloso e fiero della propria autonomia;
e in secondo luogo, perché l’esercito non è soltanto una sapiente e robusta organizzazione, ma una somma di forze morali, che in esso devono ricevere la disciplina organizzatrice;
e queste forze morali non possono esserci dove manchi ogni idea di quegli alti interessi, al servizio dei quali le forze stesse devono stare.
Il buon soldato è prima di tutto buon cittadino, che non separa la propria sorte da quello dello Stato.
Il problema militare perciò, essendo un problema politico, è nel suo fondamento problema morale:
è il problema delle idealità e del carattere nazionale.
Argomenti che noi siamo soliti ad abbandonare ai letterati e ai maestri di scuola, per ridurre la politica, sulla scena, al contrasto di alcune forme in se stesse prive di significato, e dietro le quinte, al giuoco degl’interessi di classe, se non delle persone;
senza riflettere che, a loro volta, i letterati e i maestri di scuola non hanno mai potuto porre seriamente problemi non esistenti nella vita, e guardati perciò con scettica indifferenza dagli uomini di Stato e dagli uomini d’affari.
Viene poi il momento che quegl’interessi di classe, come si sono equilibrati nello Stato, han bisogno d’esser difesi dalla prepotenza di forze esterne rappresentanti interessi opposti;
e allora ci si ricorda che Stato significa esercito;
ed esercito significa cittadini disposti non solo a versare fino all’ultima goccia del proprio sangue per lo Stato;
ma, quel che è assai più difficile, ad allontanarsi per due anni, e tre, e quattro, da ogni cosa più caramente diletta, a rimpiattarsi nelle fosse umide delle trincee, al freddo e alle intemperie, col cruccio nel cuore dei figli che aspettano e degl’interessi che vanno in rovina, mentre non si vede la fine.
E si chiama all’appello, e si fa assegnamento sul paese del letterato e del maestro di scuola, e si spera di poter improvvisare, con un po’di buona volontà alimentata da quegl’ideali che libri e scuole intanto non dovrebbero aver trascurati, quello che non si è apprestato con lo sforzo assiduo coscienzioso di tutti i giorni per anni ed anni.
Ad un tratto però una fiera sventura irrompe in mezzo alle più fiduciose speranze:
ed ecco tutti pronti a gridare al tradimento e alla caccia spietata dei capi responsabili.
No, la questione politica è questione morale:
e chi dice moralità, dice carattere, dice energia d’una fede.
Con questa energia l’Italia è rinata;
e attraverso scogli e tempeste, che parve miracolo superare, riuscì non solo ad assicurare la propria esistenza, ma a risolvere questioni che sembravano disperate:
come quella della definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa, e quella del pareggio d’un bilancio, che più d’una volta si credè destinato al fallimento.
Ma quell’energia è rimasta sempre viva:
Abbiamo noi la coscienza di aver continuato a battere la stessa via dell’eroica generazione che ci precedette:
Essa ebbe un’alta fede, che fu la forza e della concorde volontà di gettare le basi d’una grande Italia e dei contrasti da cui fu divisa nel determinare il programma e i mezzi.
Ma dopo, quale fede ha raccolto gl’italiani a presidio di questa nuova Italia, che era bensì risorta così meravigliosamente affermandosi tra le maggiori potenze d’Europa, ma doveva vivere e svilupparsi e mostrarsi sempre più degna del posto occupato:
Un paese politicamente vale per la vitalità del suo organismo:
quali movimenti, quali idee hanno sorretto e cementato negli ultimi quarant’anni lo Stato italiano:
Grandi passioni politiche, sorgenti di ispirazione e di forza alla vita pubblica, ce ne sono state;
ma senza diretto e intimo rapporto con quello Stato, che, bene o male, s’era creato, e che bisognava consolidare, per dare coesione e vigore al paese.
Partiti politici vivi e combattivi, con programmi capaci di raccogliere e disciplinare gli animi, sono stati quelli dei clericali e dei socialisti:
due programmi, che possono pure essere fermento salutare della vita politica di un popolo se hanno di fronte altri programmi non solo teoricamente avversi, ma praticamente capaci di contrapporre idea a idea, organizzazione a organizzazione.
Per se stessi, sono due programmi negativi che minano lo Stato liberale, in cui l’Italia avrebbe dovuto sempre più rafforzare il suo assetto e realizzare la propria potenza.
Ma che cosa il partito liberale, cui spettava difendere lo Stato dal doppio assalto, e giovarsene come di stimolo di progresso e di rinnovamento, che cosa ha egli opposto al programma di chi affermava la necessità di un contenuto religioso a tutta la vita pubblica e privata:
La laicità vuota della scienza, che potè avere il suo significato nel secolo XVIII, ma che s’è scoperta poi affatto remota dalla vita, e rispondente a una concezione astratta, che disarma l’uomo e lo getta in braccio all’Inconoscibile, ossia a quel potere che è stata la forza irresistibile delle chiese di tutti i tempi.
Ed ecco contro i clericali i massoni; che quando hanno preso sul serio la loro parte, han finito, come dovevano, per fare un’altra chiesa di contro a quella che volevano abbattere.
E che cosa ha opposto al socialismo, immaturo nella maggior parte del nostro paese, dove ancora non era nata, o non s’era abbastanza sviluppata quella grande industria, da cui esso trae la sua ragion d’essere;
e perché immaturo, incapace di diventare esso stesso principio genuino di forte educazione politica:
L’ignoranza, dapprima, di quel che il socialismo fosse e dovesse valere;
e poi l’incoscienza e la noncuranza della parte che al partito liberale toccava di assumere di fronte ad esso.
Lo Stato, nella sua essenza e finalità liberale, coi suoi diritti, che sono i suoi grandi doveri di cultura e di benessere, è stato abbandonato a sé, senza presidio, perché senza coscienza della sua missione.
Il senso del pubblico interesse che esso amministra, si è oscurato negli animi.
Finì col suonar falso come espressione rettorica, almeno fuori delle scuole, il sacro nome della patria.
Tale fu la nostra Italia prima della guerra.
Benedetta la guerra, con tutti i suoi dolori, se potrà segnare, come segnerà certamente, l’inizio d’una nuova storia:
24 gennaio 1918.
XIII.
L’ESAME NAZIONALE.
Con questo titolo un gruppo di valenti studiosi e uomini politici ha nei giorni passati annunziata una vasta opera storica e critica esponendone il concetto informatore e il programma;
un’opera, che essi si propongono di scrivere con la collaborazione dei competenti che consentano nelle idee di questa loro circolare, e vedano nella storia italiana del secolo XIX e di questi primi lustri del XX le cause immediate o remote, ma non meno importanti a conoscere e meditare, dei luttuosi avvenimenti italiani della fine d’ottobre.
Giacchè l’opera sarebbe divisa in tre parti; delle quali soltanto la terza dedicata a studiare l’Italia (governativa e parlamentare, militare e amministrativa, e sopra tutto morale) durante la guerra europea;
ma la seconda dovrebbe prendere in minuto esame la vita pubblica italiana dell’ultimo ventennio; e la prima, e fondamentale, ricostruire criticamente la storia del nostro Risorgimento.
Storia che si accenna a volere far cominciare col 1831; ma che molto probabilmente si sentirà il bisogno di riprendere dalle sue origini, che sono, com’è stato chiarito da molti studi recenti, nel periodo napoleonico.
E questa parte deve investigare tutto lo sviluppo della politica italiana durante il governo della Destra e durante quello della Sinistra, dal ’76 al ’98.
Nessun dubbio che, se attorno a questo lavoro, non certo facile, né forse destinato a raccogliere molte simpatie e incoraggiamenti, gli egregi promotori riusciranno a raccogliere un sufficiente numero di valide forze, che non siano né di uomini politici dilettanti di storia, né di puri storici.
addestrati al metodo della tecnica coscienziosa ed esatta, ma digiuni di profondo interesse politico e non abituati a cercare la vita dove soltanto essa è, dentro agli animi umani, con tutti i loro bisogni e le loro idee:
nessun dubbio, che sarà opera di grandissimo interesse scientifico e di un’interesse vitale pel nostro paese.
L’Italia, invero, comunque esca dalla guerra, e qualunque sia per essere il vantaggio che potrà averne riportato come potenza politica e come organismo economico, — vantaggio che non potrà, in ogni caso, risentirsi se non a lunga scadenza, — questo bene, superiore ad ogni altro possibile, deve ripromettersene:
e l’otterrà certamente, se gl’italiani sapranno apprezzarlo con viva ed operosa coscienza: il concetto, voglio dire, o meglio il senso, del suo proprio essere, così delle proprie forze come de’propri difetti.
A tutti ora sta presente nell’animo e grava sul cuore «il fulmineo rovescio della terza decade di ottobre», com’è detto nell’annunzio di questo Esame Nazionale.
E certamente quel rovescio è stata la scossa più violenta e più dolorosa che abbia destato la nostra coscienza.
Ma dolori non ne erano mancati prima di Caporetto:
non ne mancano oggi, quantunque sian cessate da vari mesi le ansie angosciose di novembre.
Il nemico è in casa;
mille e mille famiglie piangono la sorte dei figli prigionieri più amaramente di quelle che li hanno perduti per sempre;
il frutto di undici sanguinose battaglie è, o pare, perduto, come se tanti sacrifizi, tante giovani vite, tante ricchezze, tante speranze, tanti sforzi fossero piombati in un baratro.
I bambini del nostro popolo soffrono dure privazioni, e i genitori aspettano paurosi il domani.
L’Italia soffre — perchè negarlo:
Ma non si ama dirlo:
abbiamo questo orgoglio, di poter dire che nessuno si lamenta.
I nostri nemici forse soffrono più di noi.
Ad ogni modo, le nostre attuali sofferenze e i dolori che battono oggi al nostro cuore, non ci piegano, non ci piegheranno:
che cosa non soffriremmo noi se cedessimo alle seduzioni della stanchezza:
Che dolori non ci serberebbe in eterno la vergogna del disonore, del tradimento, a quanti italiani per secoli hanno vissuto con questa Italia degna di Roma nell’anima:
a quanti per questa Italia sono morti, illustri od oscuri, ma santi tutti egualmente nel nostro debito di fede a una patria, che non è cosa nostra individuale, ma patrimonio comune ai morti, ai viventi e ai nascituri:
Benedetti dunque i nostri dolori, se essi tengono lontani da noi l’obbrobrio di render possibile la più spietata sopraffazione, la più brutale oppressione, non solo di popoli, ma di idee e di principii di umanità, che la storia moderna abbia concepita, nonché tentata.
Ma sotto l’aculeo dello sforzo quotidiano, doveroso e volenteroso, noi sentiamo, come mai avremmo potuto altrimenti sentirlo, che noi possiamo quel che siamo; che la sorte nostra non può essere che quella che noi avremo saputo conquistarci; e che questa conquista dipende tutta dalle nostre forze, alle quali da parte dei nostri alleati non può venire rincalzo maggiore di quello che esse meritano in ragione della loro efficienza.
La quale efficienza sta tutta, non nei mezzi finanziari, che possono provvisoriamente essere i nostri o quelli degli altri, non nella quantità degli uomini né delle munizioni di cui avevamo abbondanza e non avremo penuria; ma nella saldezza degli animi, nella energia della fede, nella devozione di tutti al proprio dovere.
Un popolo in guerra, e in una guerra come questa, che per noi italiani contro l’Austria è stata giustamente paragonata a quella di Roma con Cartagine (mors tua, vita mea), è uno scolaro all’esame.
Indegno lo scolaro che d’una riprovazione e d’un giudizio men che favorevole si lamenta come d’ingiustizia.
No, l’Italia non è un minorenne:
essa ha una coscienza già formata e matura, e deve esercitarla ora, vigile, acuta, su tutta la formazione sua, cercare quel che le manca e perché; e apprestarsi a rimuovere la causa d’ogni suo interno malessere.
Che cittadini, illuminati e patriotti, senz’aspettare che la guerra finisca e gli animi si abbandonino all’inerte riposo morale, di cui dopo tanti travagli è pur naturale e sempre più assillante il desiderio, s’adoperino oggi a diffondere e schiarire il senso di cotesto dovere, è ufficio quanto mai opportuno, ed è una vera benemerenza.
Ma tanto più feconda potrà essere l’opera loro e tanto maggiore quindi il merito, quanto più essi si alzeranno con la virtù della intelligenza al di sopra delle passioni, che ora dividono i partiti, e si inaspriscono tra le accuse e i contrasti personali:
non già perché non ci siano persone e partiti, che meritino particolari rimproveri e siano, per debito di giustizia, tenuti ad espiare le loro colpe in faccia al paese;
ma perché dietro alle persone e ai partiti, a render possibile tutto ciò che si può loro rimproverare, c’è il passato, c’è la vita italiana nelle sue profonde propaggini storiche, ci siamo noi tutti, insomma, che dobbiamo espiare, che abbiamo cominciato a espiare le nostre colpe; e a cui la storia, che ha bisogno d’intendere a fondo, ha interesse reale d’istruire il processo.
Concetto facile, di certo, ad enunciarsi;
ma corrispondente a un atteggiamento spirituale assai difficile, che può esser dato dall’ingegno, dalla soda cultura e sopra tutto da una forte dose di buona volontà.
Vengano, dunque, i futuri storici dell’esame nazionale;
ma siano storici e non accusatori, convinti di servire così, e soltanto così, la patria, lavorando all’edificazione della coscienza nuova, con cui essa dovrà uscire dalla guerra.
10 febbraio 1918.
XIV.
EDIFICARE LA PATRIA.
È il motto di una nuova rivista sorta in questi giorni al fronte, da un piccolo nucleo di ufficiali, che sa d’interpretare l’animo di molti tra i più valorosi e dei più benemeriti della patria.
E s’intitola Volontà:
titolo che è una idea e un programma, ma anche un fremito di vita e un caldo appello a tutte le energie latenti, oltre a quelle già operanti splendidamente, gloriosamente nella dura prova delle armi con fede invitta.
«Prima di essere parola», si legge in fronte al nuovo periodico «Volontà fu vita aspra e coraggiosa nelle trincee dell’Isonzo, fu fede provata con sacrificio di giovinezza da alcuni di coloro che la pensarono quale espressione di vigorosa coscienza italiana».
Giacché Volontà, com’è detto nel primo articolo, non è nata dalle conversazioni d’una saletta di caffè, né dell’aritmetica morale d’un ragioniere, Essa è nata dalla guerra, da uomini che l’han combattuta, che l’han vista da vicino, nuda e dolorosa.
«Le vicende della guerra, fra il settembre e l’ottobre 1916, condussero a Plava, da vari settori del fronte, un piccolo gruppo di fanti.
Diversi per età, per condizione sociale, per provenienza politica, sembrava essi non avessero in comune che la vita di sacrificio, l’entusiasmo e la volontà di vincere.
Stettero insieme, con brevi interruzioni, cinque mesi, accudendo a lavori modestissimi, pensando, spesso discutendo con molta sincerità».
Nelle loro conversazioni, scambiandosi pensieri e ideali, videro a poco a poco formarsi innanzi ai loro occhi una comune immagine della vita, dell’Italia, del proprio dovere di uomini e di cittadini:
di un dovere, la cui coscienza si era maturata nella guerra, ma che andava al di là della guerra e al là di della loro persona individuale.
Videro un’Italia nuova.
che nell’esercito si affermava vigorosa;
e sentirono che essa doveva perpetuarsi e rifare in sé tutta la vita italiana domani, quando ognuno sarebbe tornato alle occupazioni consuete della pace.
«Volontà nacque allora, dai propositi di quei fanti oscuri.
E visse circa due anni nelle aspirazioni, nella fede, nelle opere loro e dei compagni che ne divenvenero alleati.
Ed a più d’uno, ai più generosi di di essi, che le avevano votato, con l’anima, il modesto contributo pecuniario, essa oggi sopravvive, forte dell’esempio e della virtù loro, illuminata dal loro sacrificio, religiosamente conscia dell’eredità di doveri, che da essi riceve».
Né anche questi compagni morti, che legarono la loro anima e i loro risparmi a Volontà, sono nominati.
Nominato è solo un grande morto, l’eroico generale Cascino, dal quale i compilatori sono orgogliosi di aver ricevuta la prima adesione, quando un di essi espose un anno fa il disegno della rivista al comandante della divisione del Monte Santo.
Sono riferite le sue parole:
«Il suo progetto... mi dimostra ancora una volta che loro hanno una fortissima tempra intellettuale e morale, che mettono col maggiore entusiasmo al servigio di una grande idea».
Ma non è detto a chi queste parole fossero indirizzate;
e questi giovani amano ricordare i detti di quest’uomo «che, in tanta povertà di caratteri, in tanta flaccidità di volere, fu veramente un carattere, una volontà incrollabile» come monito, che essi per istrada non vogliono dimenticare e il nome di questo superiore, — la cui vita, essi dicono, «fu la più nobile celebrazione della dignità del lavoro umano, del dovere, della rettitudine» e la cui fine gloriosa sul campo di battaglia fu «la misura della sua vita», — questo nome vuol essere per loro un simbolo, un grande simbolo.
In questa serietà di raccoglimento religioso, in questo umile e insieme virile sentimento di devozione all’idea della patria e del dovere, sdegnoso d’ogni dimostrazione di vanità e d’ogni men che pudìca esibizione della propria persona posso dire, a mia volta, che è la misura di quella profondità e sincerità di esperienza che gli scrittori di Volontà dicono di aver attinta dalla guerra, e di volere utilizzare per la patria.
In questo loro atteggiamento è la prima pietra del fondamento a quell’edifizio, che essi vagheggiano:
L’esperienza da essi fatta è, prima di tutto l’accensione d’una gran fede.
Avevan sempre sentito ripetere la solita storia dei difetti incorreggibili del popolo italiano: indisciplinato, svogliato, volubile ecc.
«Invece», essi ci raccontano, «vivendo per mesi a lato del nostro soldato, giorno e notte, lo abbiamo trovato buono, docile, disciplinato, lavoratore fino all’esaurimento, affettuoso, generoso fino al sacrificio della vita.
Questo figlio del popolo, ignorante, sporco, ruvido, al quale l’Italia d’oggi nulla ha dato, perché potesse elevarsi alla dignità di uomo, e che a lei tutto ha votato con slancio commovente, noi lo abbiamo visto, se comandato da uomini moralmente degni di lui, rimanere e combattere, su linee faticosamente conquistate e flagellate dal nemico, fin sette giorni consecutivi, senza tregua senza riposo, affamato, assetato, insanguinato, cencioso, ma sempre sereno, fermo di cuore e di braccio, spesso di buon umore.
Ed abbiamo finito per ammirarlo, per amarlo profondamonte, per vergognarci talvolta di noi stessi.
La nostra ammirazione e il nostro amore non ondeggiarono mai, neppure nei momenti più dolorosi, quando contro la nostra fede si ergeva tragotante il feticcio degli spiriti positivi: il fatto.
Nel soldato abbiamo conosciuto ed amato le grandi virtù del nostro popolo;
di quella grande parte oscura dell’Italia nostra che lavora e risparmia che non sa leggere né scrivere, ma vive nell’onestà, nel culto della famiglia e dell’onore, che sente ancora intensamente la gratitudine.
l’amicizia e l’impegno morale della parola data.
Di questo popolo l’esperienza di guerra ci ha resi fieri».
Ebbene, questa è l’Italia vera, su cui bisogna contare.
Di contro ad essa la borghesia degli avvocati, dei professori, degli impiegati, dei giornalisti, avventurieri, ciarlatani, faciloni, dilettanti, oziosi, cullanti la loro vanità nella critica demolitrice di tutto e di tutti:
«la ribellione pratica al modesto dovere del proprio stato».
Tutta l’Italia inferma, vecchia e tarlata, che dev’essere spazzata via dall’altra.
Ed ecco il programma.
Bisogna che l’Italia superiore della cultura e della responsabilità metta a profitto il tesoro di energie morali che si cela nella fibra del nostro popolo.
Bisogna sopra tutto coltivare il sentimento della unità e della disciplina sociale;
in modo che gli Istituti sociali non saranno più per l’italiano «un nome od un mio, ma sostanza sua, espressione dell’anima sua e gli apparterranno davvero, la guerra non sarà un’imposizione estrinseca, ma una esistenza allo spirito;
lo Stato, non più il grande distributore di privilegi e di prebende, ma una forza morale, un ideale che trova, nella mutevole realtà, contingenti e sempre nuove realizzazioni».
Questi giovani scrittori sanno bene che questa Italia che si tratta di edificare, può essere soltanto risultato di lavoro lento e tenace, di tutti e di ciascuno.
È il problema dell’educazione nazionale.
Ma appunto perciò essi sanno che c’è un punto di vista, che è questo del contenuto morale per cui convien sottoporre ad esame vigile e continuo tutti gli atteggiamenti della vita pubblica, e tutti i problemi a cui si viene via via interessando lo spirito nazionale.
E questo vuol essere il programma di Volontà.
La quale intanto si rivolge agli ufficiali dell’esercito con accento di fraterna intimità, dicendo loro:
«Volontà non è estranea a voi, non viene di fuori.
C’è un’ora, nella giornata, nella settimana, nella quale ciascuno di voi è più con se stesso, fa opera di pensiero, raccogliendo e vagliando la sua esperienza, matura le impressioni e i giudizi fugaci in propositi per l’indomani.
Quella è l’ora di Volontà.
Leggetela per vedere se vi somiglia, se vi aiuta nel vostro interno dialogo, se consente o dissente.
E trattateci come un amico col quale si parla a cuore aperto.
Sì o no.
Padronissimi di lasciarci in disparte.
Ma se ci mettiamo insieme per via, sia come camerati che vogliono aiutarsi a vicenda nel cammino, per giungere alla meta.
E la meta è una Italia che non abbia combattuto invano, della quale i morti siano contenti, che sia spiritualmente unificata nella guerra, in cui sia più larga per tutti la misura delle utilità sociali e della gioia alacre al lavoro».
Ma agli stessi ufficiali Volontà ricorda che il compito al quale essi sono stati chiamati non finisce colla guerra;
anzi comincia con essa:
«attività silenziosa che si svolge dentro le coscienze dei combattenti e dei cittadini, rifacendoli per una vita comune più intensa, per una più cordiale collaborazione, per un senso più intimo dei valori ideali, che sono i valori nazionali ed umani».
E il discorso diretto agli ufficiali, va a tutti gli italiani:
«Per la patria si muore, ma per la patria si vive.
È la stessa cosa.
Vendicate i morti.
Rinnovate, in voi, la nazione».
E speriamo che queste religiose parole risuonino in tutto il paese.
17 settembre 1918.
XV.
RESISTERE.
Bisogna render lode all’on. Crespi della coraggiosa franchezza con cui ha parlato in questi giorni passati al Senato delle ingenti difficoltà tra cui si dibatte il problema dell’approvvigionamento italiano, e degli sforzi che sono indispensabili non solo da parte del Governo, ma anche da parte dei privati, affinché le presenti difficoltà vengano superate.
Questo infatti è il momento in cui bisogna parlar chiaro e netto, in modo che ognuno sappia la gravità della situazione e la responsabilità che gli spetta.
Giacché quale che sia il giudizio che si voglia recare sul passato, una è per tutti ormai la situazione del paese;
e tutti egualmente hanno l’obbligo di guardarla, e tenerla presente in tutta la sua durezza, e prendere in conseguenza la loro risoluzione.
Il problema degli approvvigionamenti è per altro un aspetto solo del problema non dell’avvenire remoto, ma dell’imminente domani, anzi dell’oggi stesso, della vita che da questo momento ci tocca pur di affrontare.
È l’aspetto che più evidentemente s’impone all’attenzione generale, perché tocca le radici stesse della vita, che a tutti preme di salvare.
Ma il problema investe la totalità della nostra esistenza economica e politica, morale e intellettuale, nazionale e individuale.
Soltanto la cecità d’una disciplina di partito grettamente egoistica ha potuto far dire che in seguito al crollo della potenza politica e militare russa la Russia sta male, ma stanno bene i russi.
Il benessere, anzi la vita stessa dell’individuo, salvo singoli casi d’eccezione, non può sussistere in modo distinto e indipendente dal benessere e dalla vita della comunità a cui l’individuo appartiene.
È stato sempre così;
ma oggi più che mai, a causa della complicazione sempre maggiore dei rapporti economici e sociali, che nelle forme giuridiche dello Stato trovano tutela e garanzia.
Oggi come oggi l’esistenza dell’Italia è la stessa esistenza degli italiani di ogni ceto e d’ogni classe:
di quella proletaria prima d’ogni altra, poiché la prima rovina, onde sarebbe colpita un’Italia che soggiacesse alla disfatta, è quella evidentemente della grande industria, dal cui svolgimento e dalla cui prosperità dipende non solo la sorte immediata dell’operaio, ma anche quell’organizzazione della classe, in cui dal punto di vista del socialismo è riposto il suo avvenire.
Né il marxista può ignorare che la vita stentata del suo partito in Italia è in diretta relazione con le condizioni dell’industria, rimasta nella maggior parte delle nostre provincie a uno stato appena rudimentale.
Salvare, dunque, l’Italia è oggi salvare se stessi: ognuno per la sua parte.
Si tratta proprio di ciò:
perché cedere alla pressione dell’invasore, smarrirsi nelle recriminazioni dei partiti, nelle sterili logomachie parlamentari e nelle deplorazioni non meno infeconde delle scandalose malvagità di questo o quell’indegno italiano, è lasciare che l’Italia venga tagliata fuori dal novero delle grandi nazioni, che stanno in campo ciascuna a difesa del proprio destino, secondo necessità politiche, economiche e morali imposte a ciascuna dalla sua storia.
Oggi ancora non ci sono vinti, nè vincitori;
e ognuno si batte perché sente che per vivere bisogna vincere, ed e pronto a qualunque sacrifizio, stretto nella morsa di questo inesorabile dilemma.
vincere o morire.
Chi cade, dovrà fatalmente sentire sul suo capo il piede di chi gli passerà sopra per passar oltre, verso la sua meta;
e non avrà con sé, perché non potrà averli, nè gli amici, nè i nemici di ieri.
Abbandonato a sé, dovrà soccombere.
Il diritto alla vita oggi non è acquisito;
ma bisogna conquistarselo ad ogni momento, tenendo fermamente il proprio posto, dove soltanto è possibile conservare un valore in quella società delle nazioni, che gli utopisti della politica vanno cercando e vagheggiando in un avvenire irraggiungibile, mentre essa è presente, tragicamente presente, nella sua ferrea organizzazione, oggi che nessuno degli Stati europei — di quelli almeno che contano — si può dire abbia più un diritto pubblico interno che non sia appoggiato a un diritto internazionale.
Un momento di debolezza è la caduta, è l’uscita da questa società delle nazioni, dove tutti i mezzi indispensabili alla vita sono statizzati;
è come gettare alle fiamme la tessera, che ci può fare acquistare, giorno per giorno, il pane ai nostri figliuoli.
È condannarsi alla morte.
Guai dunque agli esitanti:
Ma il dovere della resistenza non è catena che ci gravi pesantemente sulle spalle quasi a toglierci il respiro.
Se in essa è certamente la nostra salute, essa è pure un bisogno profondo degli animi nostri, che non lo spettro della fame fa nascere, né il raccapriccio del pensare a quest’Italia, che è stata una delle meraviglie dell’età moderna, piombata nel nulla:
un bisogno, che sorge spontaneo dalla nostra coscienza di popolo libero che fieramente senta il proprio diritto e la propria dignità.
Non possiamo non ricordare che in guerra siamo entrati per nostra libera elezione.
Chi poté dubitare nella vigilia angosciosa, se aveva cuore d’italiano e all’Italia guardava come a cosa santa ed alta, che non può esser gettata nel fango senza che egli sia moralmente soppresso, non ha potuto non sentire tutta la necessità, tutta la santità della guerra, e di una guerra fino all’estremo, quando ha veduto la patria disprezzata dal nemico, moralmente e militarmente.
Nella guerra non subìta, ma voluta, e proseguita con tutta l’energia della fede, è il nostro onore e la stessa ragione della nostra vita.
E perciò non questo o quel risultato è quel che ora ci preme;
ma non piegare, mostrare virilmente la fronte, resistere;
perché nella resistenza è la nostra volontà che afferma la sua buona coscienza e il suo diritto.
E nella resistenza sarà la nostra vittoria;
poiché la fortuna delle armi può non dipendere in tutto dal volere e dalla virtù di una nazione;
né la fortuna, da sola, arrecherà mai appagamento alle aspirazioni d’un popolo.
Lo sperimentano oggi i nostri nemici, cui arride la fortuna, certamente, ma non la vittoria apportatrice del trionfo e della pace.
Vince soltanto chi esce dalla lotta senza disdire la volontà, con cui la lotta affrontò, anteponendola all’ignominia del quieto vivere.
10 marzo 1918.
XVI.
LE DUE ITALIE.
Tante accuse sono state mosse contro la censura dei giornali pel rigore con cui essa ha tagliato, non sempre forse opportunamente e coerentemente, notizie e commenti, che qualche desiderio sarà pur lecito manifestare in senso precisamente opposto:
giacché la verità non ha mai una faccia sola, e conviene pure guardarla da diversi aspetti.
Che se per un verso potrà forse parere che i criteri dei censori siano troppo stretti, per un altro bisogna pur considerare se non siano troppo larghi.
I giornali vanno dietro allo scandalo;
è il loro uso ed è la loro necessità, perché niente riesce più attraente per la maggior parte del pubblico, niente soddisfa più la malsana curiosità e l’istinto pessimistico, che si annidano in ogni cuore umano.
E poiché l’uso è questo, nessun giornale che non voglia cedere il campo, — che non è solo gara d’interessi, ma anche e sopra tutto competizione d’idee, — occorre pure che vi s’assoggetti.
D’altra parte, lo scandalo in materia attinente alla guerra è un fuoco in cui soffiano le più veementi passioni.
C’è chi ha voluto e vuole la guerra;
e c’è chi non la vuole, o almeno non la voleva, e che dirà, più o meno sinceramente, di volerla anche lui dacché si combatte, ma che difficilmente riesce a far tacere nel fondo dell’animo una voce tentatrice, che gli parla della sua antica avversione e ripugnanza a questo terribile esperimento di tutta la vitalità d’un popolo.
E per l’uno e per l’altro lo scandalo, la scoperta di una potente speculazione d’indegni industriali ai danni della patria, di una macchinazione diabolica d’affaristi o politicanti che se la intendevano col nemico, di una trama di spionaggio rimasta lungamente nell’ombra, diventa argomento poderoso di polemica, come arma di difesa o come arma di offesa.
Giacché l’interventista che non aveva dubitato della facile vittoria e la guerra aveva caldeggiata come l’ultimo urto che l’Italia era chiamata, per sua fortuna, a dare contro la barcollante monarchia danubiana, e che a poco a poco ha dovuto imparare dalla dura realtà qual fosse propriamente la guerra, a cui conveniva incorare gl’italiani, troverà sempre comoda la tesi che le sue previsioni, almeno in parte, sian dovute fallire non perché fossero superficiali e infondate, ma perché non tutti han fatto il loro dovere;
e perchè c’è stato e il tedesco tollerato in casa, e l’imboscato pronto a rimpiattarsi negli uffici inutili, e c’è stato il turpe traffico dei cascami, ed altre ed altre lordure, contro le quali non si farà mai abbastanza la voce grossa.
Tutto un sistema, dunque, di difesa dell’opera propria e di accusa contro... gli altri:
Ma il neutralista non si lascerà prender la mano dall’avversario;
e se non lo lasceranno parlare in pubblico, si sfogherà in privato, dove il danno non è minore.
E gli parrà d’aver tutte le ragioni di riflettere che appunto era questo paese quello che esso aveva innanzi agli occhi, quando si faceva un obbligo di coscienza di sconsigliare la partecipazione al conflitto dei popoli.
Gli parrà quindi non solo lecita, ma doverosa la conclusione che, poiché in guerra ci siamo, e indietro non è più possibile tornare, queste dolorose dimostrazioni della nostra insanabile debolezza interna dovrebbero persuaderci almeno della convenienza di venire al più presto possibile a una conclusione pur che sia.
Così nè l’interventista né il neutralista, compiacendosi per opposti motivi, per quanto amaramente, di tutti gli scandali che la stampa è messa in grado di denunziare, si accorgono di allearsi l’uno e l’altro a tutti quei cittadini, che essi deplorano, concorrendo con costoro a disfare il vigore di quella compagine morale, che è la prima forza di un popolo in guerra.
Non importa:
lo scandalo dilaga, e il popolo che soffre, e che è incitato a sopportare con pazienza, con abnegazione, con fede tutti i sacrifizi che gli si chiedono, questo popolo mirabile, che rende tanto di più di quel che ha ricevuto, ma ha pur bisogno di credere che il suo sangue non sia sparso invano, e che le sue sofferenze approderanno a qualcosa, leva gli occhi su tutti questi accusatori, e domanda:
— Ma dunque, questa è la Patria per cui bisogna morire:
— No, certamente non è questa.
I venditori di cascami alle fabbriche di aeroplani destinati a colpire le nostre città, e tutti i simoniaci della patria devono essere puniti senza pietà:
e quanti conoscono un traditore, devono denunziarlo;
e il Governo ha tutti i mezzi per scoprire i colpevoli e consegnarli alla giustizia, che non deve aver bisogno del clamore pubblico per condannare.
E quando essa ha condannato, e gli accusati perciò sono stati convinti delle loro colpe, essi devono essere additati al pubblico disprezzo, a conforto di quel senso di fiducia con cui un popolo deve poter guardare alla reale giustizia del suo paese.
Prima no:
nel periodo dell’accusa e dell’istruttoria, ogni pubblicazione, con la serie sterminata delle congetture e delle discussioni a cui dà luogo, non può che produrre quella ovvia e pur sempre inavvertita illusione, per cui le cose piccole paiono grandi pel solo fatto che se ne parla molto.
Ieri tutta la Francia parve Bolo, perchè i giornali francesi erano pieni del suo nome;
oggi tutta l’Italia pare l’Italia dei cascami, perché da un pezzo si direbbe non si faccia altro in Italia che l’istruttoria di quel processo.
Che è certamente una gran brutta cosa: grande, per ogni verso, e brutta quanto non si può dire;
ma che, ad ogni modo, sarebbe ingiustizia enorme prendere a indice della moralità e del patriottismo del popolo italiano, o della sola borghesia industriale:
com’è manifestamente un’offesa alla dignità del nome italiano parlarne come del fatto più notevole del giorno.
No, più notevole, per esempio, a me parrebbe la perfetta disciplina con cui questi ultimi giorni la più grande città italiana si è assoggettata al regime più rigoroso della tessera annonaria, che molti dubitarono lungamente vi si potesse imporre;
e un’altra delle maggiori sostenne tranquillamente un bombardamento notturno.
L’Italia che sta in guerra non è quella degli scandali, la piccola Italia, che noi dobbiamo soffocare dentro di noi; ma quest’altra, la grande Italia, che è la vera, la viva, quella che, malgrado tutte le chiacchiere e le querimonie, regge e reggerà alle prove più dure, perché ricca di sane energie e di un tesoro di grande civiltà immortale.
E la censura non farebbe male a impedire che sui giornali la piccola Italia non avvolgesse nella sua ombra la grande: che è quella che tutti gl’italiani ora più che mai devono guardare e difendere.
20 marzo 1918.
XVII.
IL NEMlCO INTERNO.
Di nemici interni ce n’è di più specie.
C’è il contrabbandiere e c’è la spia;
c’è il disfattista di proposito e c’è il pacifista impenitente;
e c’è il germanofilo, cui rincrescerebbe in buona fede che la guerra facesse soccombere quel popolo, che più vigorosamente, a suo avviso, è riuscito ad organizzare i principii politici, dalla cui saldezza dipende forse l’avvenire dell’umanità.
Tutte queste varietà di nemici interni sono ben note;
e tutti sono pronti a denunciarle e a perseguitarle.
E i giornali, che hanno a cuore la salute della patria riposta nella tenace resistenza e nel proseguimento della guerra fino alla fine, gettano continuamente l’allarme contro l’uno o l’altro di questi insidiatori della forza nazionale.
Ma c’è una forma d’insidia, che è forse tanto più pericolosa delle altre, quanto meno è dolosa, e quanto più facilmente perciò sfugge alla vigilanza di chi vuol mantenuto e difeso lo spirito bellico del paese: quella forma, che è poi la più diffusa, ed è anche la base, sulla quale operano infatti tutte le altre, in quanto promuove in tutte le classi e in tutti i ceti la disposizione spirituale più propizia alla propaganda disfattista e al cinismo patriottico e morale di tutti i traditori.
È l’insidia inconsapevole dei critici pessimisti, che pullulano a ogni passo in tutte le direzioni della nostra vita pubblica; e il cui numero si direbbe sia venuto crescendo in progressione geometrica durante la guerra via via che l’impresa si è dimostrata in tutta la sua ardua difficoltà.
L’italiano — chi non lo sa: — è un popolo in cui l’intelligenza prevale sulla volontà.
Abituato da parecchi secoli di storia ad esercitare più le facoltà artistiche e speculative che quelle fattive e pratiche delle grandi correnti politiche ed economiche, esso ha potuto vantare di fronte alle altre grandi nazioni europee un titolo di superiorità, che è stato pure una ragione di funesta debolezza in mezzo al contrasto delle forze maggiori del mondo moderno.
Ingegno, genialità, libertà da tutti i pregiudizi;
giacché se l’Italia è rimasta cattolica, non fu mai nè la Spagna né l’Austria, e il movimento della sua civiltà si è svolto, rispetto alle credenze religiose, in una libertà spirituale, di cui non si ebbe mai sentore nei paesi protestanti.
Quindi non ardore di fede operosa, non impeto di energie pratiche, anzi critica, ironia e scetticismo:
abiti mentali, che, quando gli ideali della vita sono risorti in tutto il loro vigore, han reagito, generando negli animi più puri una tendenza irresistibile al pessimismo.
E oggi siamo a questo: che i più onesti patrioti e gli amatori più zelanti dell’onore e dell’avvenire del paese non riescono, o solo a grandissimo stento, a serrare l’animo al dubbio che l’Italia possegga in sé la forza di tener degnamente il posto che la storia le ha assegnato: di tenerlo virilmente, con l’arme in pugno, con invitta costanza di proposito.
Sono i migliori italiani, che pare non abbiano occhi se non per vedere i difetti della patria;
così come tra i mistici sono certamente i più profondi cristiani, quelli che sentono con compunzione infinita la propria impotenza morale, derivante dall’insanabile corruzione della propria natura in seguito al peccato:
insanabile, se non soccorra una grazia superiore.
L’Italia:
È il paese in cui tutto va male e nessuno fa il suo dovere:
non scuola viva, non amministrazione normale, non burocrazia limitata e né pure sufficiente al bisogno;
non esercito preceduto da una tradizione, né preparato da un’accurata istruzione, né governato da una giusta e insieme severa disciplina;
non parlamento conscio della gravità dei doveri più urgenti;
né governo pari alle difficoltà da superare; ecc. ecc.
Disertori e imboscati:
e chi è al fronte, c’è stato troppo e non vorrebbe starci ancora.
E gli ufficiali di carriera si tirano indietro, per mandare avanti quelli di complemento;
e, a sentire, nessuno combatterebbe, o avrebbe voglia di combattere.
E così via, all’infinito.
Le nostre orecchie non sono piene di queste deplorazioni accorate:
C’è bisogno di ridire tutto quello che si sente così spesso ripetere:
Provatevi a richiamare l’attenzione di questi piagnoni su qualche fatto, dei più evidenti e indubitabili (o che vi paion tali), il quale potrebbe provare che qualche cosa pur quest’Italia s’è mostrata capace di fare durante la guerra: non molto, ma pur tanto da far pensare che anch’essa, per Dio, sia viva:
Vi si risponderà che, a rifletterci bene, cerca e fruga, non si trova nulla e che quel che può parere a prima vista una forza nostra, è stata una debolezza dell’avversario, se non anche un nostro difetto.
Dopo il terribile disastro di Caporetto, che minacciò di fiaccarci per sempre, l’invasore fu fermato tuttavia al Piave e sul Grappa:
— Sì, ma questo dipese unicamente dal fatto che il nemico non aveva potuto prevedere una così facile avanzata, e non s’era preparato a penetrare più in qua.
— E non importa che questo nemico venisse avanti vantandosi altezzosamente di dover essere tra pochi giorni a Venezia:
— Eppure questo popolo, che pareva così poco disposto ad affrontare i sacrifizi penosi di una lunga guerra, s’è sottomesso, primo fra tutti i popoli dell’Intesa, alle più dure privazioni di un rigoroso razionamento, sopportando tranquillamente tutti i dolori e dimostrando una fibra che non s’era osato sperare.
— Sì, ma più che disciplina sentita e liberamente accettata, è stata una sorta di abbandono passivo ed inerte a una necessità fatale, in cui non c’è virtù, e da cui non si può neppure sperare quel beneficio che ogni dolore arreca a chi soffre, indurandone l’animo e addestrandolo al sacrifizio.
— E non importa che quest’accettazione del razionamento sia stata pur preceduta, come tutti sanno, da un momento di incertezza, in cui parve dapprima che questo popolo non intendesse sottomettersi alla dura necessità:
— Così è:
prima si dice che questo popolo non vuole;
e quando sarà pur chiaro che ha voluto, si dirà che non si è trattato di volere o non volere, ma di semplice inerzia, indifferentismo e fatalismo.
Ma a che moltiplicare gli esempi:
Il vizio che vogliamo additare è notissimo;
è il pessimismo che non è deliberato proposito, nè sistema di idee, che si possa scalzare per mezzo di stringenti ragioni e di ovvie constatazioni di fatti;
poiché è piuttosto un atteggiamento dell’animo, e una seconda natura, che fa veder tutto buio, e chiudere gli occhi al sole che splende alto sull’orizzonte.
È quasi una malattia che ci rode di dentro, e ci consuma l’anima.
Non sono i foglietti volanti, che si fanno trovare al mattino sotto le saracinesche dei negozi napoletani, che possono scuotere la fede e il coraggio del popolo;
né le bombe dei dirigibili e aeroplani nemici;
né i colpi d’ariete, se verranno, della nuova offensiva.
No: quel che rende l’animo nostro sensibile a tutte le scosse è il veleno che noi stessi ci propiniamo, senza volerlo, ad ogni ora, ad ogni istante, esercitando a nostro danno il nostro spirito critico e maldicente e il gusto malsano di rifrugare dentro alle nostre piaghe, acutissimi a vedere tutto quel che ci manca, ciechi allo spettacolo pure mirabile di quello che intanto facciamo e faremo.
Certo, non sarebbe meno dannoso il fatuo ottimismo:
ma gli estremi si toccano, anzi coincidono perfettamente;
e il senso sempre vivo dei nostri difetti da correggere non deve spegnere in cuore la fiamma della fede, che è alimentata soltanto dalla coscienza della propria forza.
24 marzo 1918.