Voci della Grande Guerra

Diario di guerra (Estr. da: "Rivista di psicologia", a. 12, n. 1-2) Frase: #1793

Torna alla pagina di ricerca

AutoreMussolini, Benito
Professione AutoreGiornalista, politico
EditoreStab. poligrafico emiliano
LuogoBologna
Data1916
Genere TestualeDiario
BibliotecaUniversity of California Library (Google books)
N Pagine Tot55
N Pagine Pref
N Pagine Txt55
Parti Gold17-67
Digitalizzato OrigNo
Rilevanza1/3
CopyrightNo

Contenuto

Espandi

DIARIO DI GUERRA

(In zona di guerra ho costantemente chiesto per la «Rivista» a tutti gli amici che, parlando della vita sulla linea del fuoco narravano cose interessanti ed evidentemente sincere, i loro appunti:

e tutti mi hanno promesso di riordinarli tosto per me.

Ma nessuno finora ha mantenuto la promessa.

Siccome li conosco, i buoni amici, sono quasi certo che non mi hanno mandato quegli appunti — che essi stessi giudicavano psicologicamente più interessanti degli articoli che avrebbero potuto trarne fuori, — per la buona ragione....

che non li avevano mai presi.

L’esperienza formidabile della guerra, per chi non vi è usato, dà a tutte le impressioni una vivacità tale, che sembrano incancellabili per chi le vive:

ed è quindi naturale che ciascuno prenda tempo per scriverle, tanto più che al campo non ci sono troppe comodità.

Da ciò dipende, almeno in parte, anche la scarsa loquacità di questi uomini, e sopratutto di quelli che hanno vissuto un maggior numero di esperienze «oltre le quali è il silenzio», come nel celebre verso:

per questo, anche, sono così rari nella letteratura, elevata o corrente, i racconti genuini della vita di guerra, di cui sono un magnifico esempio le «Noterelle d’uno dei Mille», che anche nel titolo rivelano il modesto sentimento del loro autore.

Per tutto questo sono tanto più grato a BENITO MUSSOLINI di aver pubblicato nella «Rivista» queste sue impressioni che egli ha scritto per sè e per i lettori del suo glorioso «Popolo d’Italia» dove hanno già veduta la luce man mano che l’autore le spediva dal campo.

Benito Mussolini, anima ardente e fiera e rara di figlio autentico della classica Romagna di un tempo, non fa qui della letteratura, e se uno sforzo è in queste pagine, è soltanto quello di non posare neppure per la sincerità ad ogni costo.

È semplicemente sincero come lo si è quando si è soli con se stessi davanti ai grandi misteri, come la guerra, come la morte.

Ora che egli è tornato in trincea, il nostro augurio più fervide l’accompagni, col grido:

Viva l’Italia.

F.)

IN ZONA DI GUERRA.

9 Settembre.

Da stamani circola la notizia della nostra prossima, quasi improvvisa partenza per la linea del fuoco.

Dove andiamo:

Nessuno lo sa dire con esattezza.

Non importa.

L’essenziale è di muoversi.

Il pensiero di passare alcuni mesi in guarnigione mi sgomenta.

La notizia della partenza si è diffusa tra i plotoni, ma non ha sollevato una grande emozione.

E tempo di guerra:

si va alla guerra.

E naturale:

D’altra parte lo stato d’animo di questi richiamati dell’84 non è negativo.

Uomini di trent’anni, comprendono certe necessità.

Vi sono molti interventisti anche all’infuori dei milanesi:

ne ho conosciuto un’altro; un caporale di Crespino, in quel di Rovigo.

Gli elementi di lievito non mancano.

Una lieta sorpresa mi attende.

Ricevo un biglietto che dice:

«L’ex-linotipista dell’Avanti, Adolfo Giretto, ora residente a Rovigo, per mezzo dell’amico Battaglioni, le manda i saluti piu affettuosi, ricordandolo».

Un caporale milanese che era stato destinato al Deposito, se n’è tornato con zaino e fucile in compagnia per andare insieme con tutti noi al fronte.

Bel gesto:

Il caporale si chiama Mario Morani.

Giornata melanconica.

Prima pioggia autunnale.

Sottile, silenziosa, insistente.

VERSO LA LINEA DEL FUOCO.

11 Settembre.

Stamani, insieme con altri dodici soldati, sono stato comandato di guardia al Tribunale di Guerra del 3.° Corpo d’Armata.

Ho assistito — come sentinella d’onore — allo svolgimento di due processi poco importanti.

Primo.

Un territoriale di 39 anni, imputato di abbandono di posto.

Faceva il mugnaio.

Un povero diavolo che è livido di paura.

Il P. M. chiede un anno di reclusione, ma il tribunale assolve.

Secondo processo:

quattro imputati di un furto di scarpe.

È una storia complicata e noiosa.

Il Tribunale condanna.

Credevo, in verità, che la Giustizia Militare fosse più sbrigativa, sommaria.

È invece minuziosa, analitica.

Mi è apparsa più incline all’indulgenza di quella civile, per effetto, forse, di quella specie di imponderabile solidarietà professionale che si stabilisce fra uomini d’arme.

12 Settembre.

Siamo stati richiamati il 31 agosto e la nostra vita di guarnigione è già finita.

Si annunzia in forma ufficiale che partiremo domattina alle 7.

Si annunzia anche, che verso mezzogiorno il Colonnello ci passerà in rivista e ci terrà una «morale».

Sono le undici quando la tromba alla porta suona l’attenti: è il Colonnello che entra in caserma.

Usciamo nel cortile, armati, senza zaino.

Formiamo una specie di quadrato.

Suona un’altra volta l’attenti.

Il Tenente Colonnello parla.

Discorso terra terra.

Bisogna trovare altri accenti quando si è dinnanzi a uomini di trenta e più anni.

Bisogna considerare i soldati come uomini, non come matricole.

Pei graduati c’è un supplemento di morale, fatto dal tenente Izzo.

Io che sono soldato semplice me ne vado fuori.

13 Settembre.

Ore due: sveglia e in rango.

C’è da ricevere la cinquina, un paio di scarpe di fatica, una coperta da campo e una scatoletta di carne da consumare durante il viaggio.

Quest’operazione dura un paio d’ore.

I bersaglieri si pigiano dinanzi alla fureria.

Chi fa tutto, dentro, è il sergente Fogli, ferrarese.

Grida, lavora e suda come un facchino.

È l’alba:

— Zaino in spalla:

In marcia verso la stazione.

Il treno è pronto, ma si parte con un lieve ritardo.

Siamo 351, compresi i tre ufficiali — un tenente e due sottotenenti che ci accompagnano.

Occupiamo i vagoni.

Nell’attesa, una donna completamente vestita di nero taglia i gruppi delle persone raccolte attorno al treno e si getta fra le braccia del marito che parte.

Il marito — col ciglio asciutto, — si divincola dolcemente dalla stretta affettuosa e incuora la donna che si allontana — adagio — colle mani sulla faccia, per nascondere le lacrime.

È l’unico episodio patetico della partenza.

Il nostro vagone è adornato di rami.

Una prima scossa.

Un fischio breve.

Ecco: il treno va.

Addio:

Addio:

Un agitare convulso di mani fuori dai finestrini e un gridare tumultuoso:

Addio:

Addio:

Poi canti a voce spiegata.

I miei amici gridano:

Viva l’Italia:

Attraversiamo la campagna bresciana.

Vaste distese di verde che impallidisce sotto il sole autunnale.

Lago di Garda.

Non l’ho mai visto così bello:

Peschiera.

Cittadella grigia.

Mi ricorda un anno di vita militare.

Addio, vaga penisola di Sirmione incantevole:

Siamo alle campagne veronesi, melanconiche, sassose.

Fa caldo.

Sosta a Verona.

Sosta più lunga a Vicenza.

A Treviso grande movimento di soldati.

Un treno di feriti.

Altri vagoni pieni di soldati di fanteria si accodano al nostro treno, che diventa lunghissimo e deve rallentar la marcia.

Stazioni:

Conegliano, Pordenone, Sacile.

A Pordenone, noto, passando, un monumento che consiste in una colonna altissima sulla quale è un globo.

Sul globo è una statua.

Chi è:

Confesso con questo interrogativo la mia ignoranza.

Crepuscolo serale.

Nel cielo che incupisce volteggia un Farman.

A Casarsa lunga tappa.

Si aggiungono al nostro treno vagoni di artiglieri.

Un vagone scoperto porta un cannone di proporzioni spettacolose.

È tutto circondato di fronde verdi.

Uno dei serventi agita una grande bandiera tricolore.

Entusiasmo generale.

Saluti fra i soldati delle varie armi.

Udine - quando vi giungiamo alle 19 — è buia.

Interminabili treni per i rifornimenti, sono immobili lungo chilometri e chilometri di binari.

Quale somma enorme di sforzi richiede il rifornimento e vettovagliamento di un esercito che combatte.

Cividale.

È notte alta e non vedo nulla.

Ci rechiamo agli accantonamenti.

Capito coi miei amici nel solaio di un contadino.

Sonno profondo.

14 Settembre.

Sveglia alle cinque.

Sento che le mie ossa sono un po’ammaccate.

Un’ora di marcia, con uno zaino che pesa trenta chili, mi rimetterà in forma.

Siamo nel cortile dell’accantonamento e attendiamo l’ordine di partire per Caporetto.

Un bambino attraversa la strada gridando:

— Un aeroplano:

Un aeroplano:

C’è infatti un velivolo austriaco, altissimo.

Immediatamente entrano in azione le batterie anti - aeree.

Si ode distintamente il loro crepitio.

Le nuvolette verdognole degli shrapnels punteggiano l’orizzonte.

Ma il velivolo nemico, che si è tenuto sempre ad una quota altissima., torna indietro.

Cividale: città simpatica.

D’interessante:

il monumento ad Adelaide Ristori.

Qui, più ancora che a Udine, si ha l’impressione della guerra vicina.

Teorie interminabili di camions automobili e di carri d’ogni specie vanno e vengono incessantemente.

Scrivo queste linee nel cortile di una fattoria, durante un alt.

Qualcuno dei miei compagni dorme.

Qualcun altro scrive.

Sotto a un pergolato si gioca alla morra.

Giunge da lontano il rombo del cannone.

Io amo questa vita di movimento, ricca di umili e grandi cose.

15 Settembre.

Tappa a S. Pietro al Natisone.

Primo dei sette Comuni in cui si parla il dialetto sloveno.

Incomprensibile per me.

Il tenente Izzo ci ha invitati ieri sera a bere un bicchiere di congedo con lui.

Egli ci accompagna sino alla linea del fuoco, poi ritornerà a Brescia, per entrare come osservatore nel corpo aviatori.

Riunione fraterna, simpatica.

Sono con me Buscema, Moroni, Tafuri, Bocconi.

Stamane, sveglia alle sei.

In marcia:

Sole cocente.

Il polverone sollevato continuamente dai camions e dalle salmerie ci accieca.

Ecco Stupizza, l’ultimo paese italiano prima della guerra.

Troviamo della birra eccellente a un prezzo discreto.

Di lì a poco giungiamo alla linea del vecchio confine.

A lato della strada c’è una casa e un posto di guardia.

Le insegne austriache sono scomparse.

Momento d’emozione per me che mi ricordo di essere stato nell’ottobre del 1909 sfrattato da «tutti i paesi e regni dell’Impero austriaco».

Il tenente grida:

— Viva l’Italia:

lo, che mi trovo in testa della colonna, ripeto il grido ed ecco quattrocento voci gridare in coro:

— Viva l’Italia:

Giungiamo dopo una marcia faticosa a Robich, primo villaggio ex-austriaco.

A Robich tappa di alcune ore.

Ci precipitiamo nell’unica osteria.

Noto un bambino di sei o sette anni che si afferra al braccio di una pompa e ci serve di acqua.

Gli domando:

— Come ti chiami:

— Stanko.

— E poi:

Il bambino non capisce e non risponde.

Lo domando a una ragazza che attraversa il cortile.

— Si chiama Robancich.

Nome prettamente slavo.

Nel prato, poco lungi, un caporale, il milanese Bascialla fa circolo.

Ha ritagliata, e l’ha conservata nel portafoglio, una cartina della zona di guerra.

Col dito teso, egli indica il famoso e misterioso Monte Nero.

Inscrizione trovata, due chilometri prima di Caporetto, su di una cappella votiva al soglio della strada:

Nikdar Noben se ni Bil zapuscen

Kiv vartvo Marji Dil izzogen.

Caporetto.

Non ho visto che un campanile bianco con una guglia grigio - verde, sottile.

Una moltitudine di soldati si affolla attorno a noi per cercare i compaesani.

Ci accampiamo poco lungi dall’Isonzo, sulla nuda terra.

Miei compagni di tenda: caporale Buscema, caporale Tafuri, caporal magg.

Bocconi.

Nella notte romba il cannone, verso Gorizia.

Nell’accampamento - vigilato dalle sentinelle — silenzio alto.

Si sente la guerra.

16 Settembre.

Mattinata fredda.

Sull’Isonzo è un velo di nebbia.

La notizia del mio arrivo a Caporetto si è diffusa.

Discorsi e impressioni.

Due soldati d’artiglieria.

Accidenti:

A sentirli, il nostro esercito è quasi interamente distrutto; l’Inghilterra dorme, la Francia è spezzata, la Russia finita.

Discorsi odiosi e imbecilli che io ho sentito ripetere tante volte.

I due compari — che non sono mai stati al fuoco — la piantano in tempo giusto per evitare una energica cazzottatura.

Ma ecco tre bolognesi.

Il loro morale è infinitamente migliore.

Durante la distribuzione del rancio un capitano medico mi cerca tra le file.

— Voglio stringer la mano al Direttore del Popolo d’Italia.

Pomeriggio di chiacchiere.

Episodi di guerra.

Esaltazione unanime degli alpini.

L’Isonzo:

Non ho mai visto acque più cerulee di quelle dell’Isonzo.

Strano:

Mi sono chinato sull’acqua fredda e ne ho bevuto un sorso con devozione.

Fiume sacro:

SOTTO IL CANNONE.

17 Settembre.

Partenza.

— Andiamo aggregati all’*** che si trova sulla catena del Monte Nero.

Un sottotenente medico rodigino che sta al comando di tappa, vuole conoscermi e salutarmi.

Mi offre una eccellente tazza di caffè.

Siamo in rango.

Il tenente Izzo ci fa alcune raccomandazioni.

Ci dice che a un certo punto della strada saremo a tiro del cannone nemico.

— Guai ai ritardatari:

I1 battaglione non sembra affatto preoccuparsi.

— Classe di ferro, l’84:

Il «morale» è ancora piu elevato.

I discorsi stupidi che erano rari prima, non si odono più.

C’è dell’allegria.

Un artigliere di Corticella, tale Mengoni, mi accompagna per un tratto di strada.

Attraversiamo gli attendamenti delle salmerie e degli alpini.

L artigliere bolognese di quando in quando mi precede per annunciare a gruppi di suoi amici il mio passaggio.

Molti mi salutano con simpatia.

Auguri:

Valichiamo l’Isonzo.

A Magozo — piccolo paese sloveno, dove non sono rimaste che due vecchie, le quali si nutrono col rancio dei soldati — incontriamo una colonna di prigionieri.

Li circondiamo.

Sono 46.

Un intero plotone, con un cadetto e un sott’ufficiale.

Il loro equipaggia mento è buono.

Siedono su due file per terra.

Molti fumano.

Hanno, specie gli anziani, l’aria soddisfatta.

Ma il cadetto, che sta dietro agli altri, è nervoso.

Si morde le labbra.

Trattiene a stento le lacrime.

Il caporale Tafùri gli dice:

— Non temete, in Italia sarete trattato bene...

— Glauben Sie:

— interroga dubitoso il cadetto.

È giovane.

Non arriva ai vent anni.

Un bersagliere di scorta mi racconta come furono catturati.

Di fronte alle posizioni del 39.° batt.

dell’*** bersaglieri c’era una trincea dall’aspetto formidabile.

La notte scorsa è stata ordinata l’avanzata.

Una squadra di bersaglieri si è spinta inosservata fin sotto i reticolati e ha fatto scoppiare un tubo di gelatina, seguito da un assalto irrompente alla baionetta.

Gli austriaci, che non se l’aspettavano, non sono riusciti a sparare che qualche fucilata.

Hanno levate le braccia.

Si sono arresi.

— Bono taliano, rispettare prigioniero:

Riprendiamo la nostra marcia.

Dobbiamo giungere a quota 1270.

Siamo sulla mulattiera che va al Monte Nero.

Incontriamo dei feriti.

Alcuni leggeri che fumano e sorridono.

Altri più gravi.

Uno di essi ha il volto coperto da un giornale.

Sotto si vede la faccia tumefatta e insanguinata.

Due feriti austriaci.

Uno leggero.

Un altro più grave:

deve aver le braccia spezzate.

Sono diretti all’infermeria — sezione della Sanita — di Magoso.

Colonne lunghissime di salmerie.

Senza i muli non sarebbe possibile la guerra in montagna.

I più stanchi di noi caricano gli zaini sui muli.

Verso sera giungiamo nella zona battuta dall’artiglieria austriaca.

Fischiano nell’aria — col loro sibilo caratteristico - le granate.

Scoppi formidabili.

Qualche bersagliere è un po’emozionato.

Io che marcio in fondo alla colonna, incoraggio coloro che mi stanno vicini.

Passata la prima e comprensibile emozione, la marcia faticosa con zaino completamente affardellato riprende, sotto il fuoco abbastanza accelerato dell’artiglieria nemica.

Una granata scoppia vicino a una colonna di muli, ma non fa vittime.

Un’altra cade e scoppia in prossimità di un gruppo di bersaglieri e solleva un turbine di scheggie.

Un bersagliere grida ch’è ferito.

Ha avuto la clavicola frantumata.

Un’altra granata scoppia accanto a un altro gruppo nel quale mi trovo io.

Spezza diversi grossi rami di un albero.

Siamo coperti di foglie e terriccio.

Nessun ferito.

Gli austriaci tirano a caso.

Imbruna quando giungiamo al Comando.

Siamo attesi da un maresciallo.

Siamo da dodici ore in marcia, con una sola tazza di caffè nero nel ventre.

Nessuno è rimasto indietro.

E si tratta di soldati dei distretti di Cremona, Rovigo, Ferrara, Mantova, nati e vissuti nelle più basse pianure d’Italia.

Vecchia e sempre giovane stirpe italica:

Un bersagliere mantovano mi avvicina e mi dice:

— Signor Mussolini, giacchè abbiamo visto che lei ha molto spirito (coraggio) e ci ha guidati nella marcia sotto le granate, noi desideriamo essere comandati da lei...

Sancta simplicitas:

Ci contano e ci dividono nei tre battaglioni dell’*** bersaglieri.

È l’ora della separazione.

Il tenente Izzo che torna a Brescia, insieme coll’ottimo caporale Biagio Biagi di Cento, ci saluta.

Noi assegnati al 33.° battaglione, riprendiamo la marcia, in fila indiana.

Sono le dieci.

Sotto a un costone fumano le marmitte delle cucine.

Ci preparano il rancio.

Un po’scarso, ma eccellente.

Pasta, brodo, un pezzo di carne.

Ma molti assetati chiedono invano dell’acqua.

Ci stendiamo fra i macigni, all’aria aperta.

Non fa freddo.

Notte stellata, plenilunare.

Silenzio.

Spettacolo fantastico.

Siamo in alto:

Siamo in alto:

Già battezzati dal fuoco dei cannoni.

Così si chiude la prima giornata di guerra:

LA PRIMA NOTTE IN TRINCEA.

Sabato, 18 Settembre.

Stamani ci hanno diviso nelle tre compagnie del battaglione.

L’operazione è stata lunga.

Alcuni caporali e sergenti ci hanno fatto passare il tempo raccontandoci episodi gloriosi dell’*** bersaglieri durante i primi mesi di guerra.

Sono stato assegnato all’8.a Sono con me Buscema, Moroni, Tafuri.

Verso sera ci muoviamo per raggiungere la nostra posizione.

Invece di andare per la mulattiera diamo la scalata - quasi verticale — al costone.

Dobbiamo giungere a quota 1870.

Una discreta altitudine, come si vede.

L’ascensione ci abbrevia di almeno tre ore il cammino, ma è faticosa, tanto più che non abbiamo il bastone da montagna e portiamo lo zaino.

Gli uo mini dei «posti di collegamento» ci hanno guidato.

Nessuno è rimasto indietro, ma siamo giunti a notte inoltrata.

Prima di giungere alla mèta, passiamo accanto a fosse di soldati italiani.

Quattro o cinque.

Mi sono chinato su una rozza croce di legno e ho letto:

Oscar De Lucia, sergente,

morto il 13 settembre 1915.

Le altre croci non recano nomi.

Sono fosse collettive.

Poveri morti, sepolti in queste impervie e solitarie giogaie:

Io porto nel mio cuore la vostra memoria:

Ci siamo accovacciati fra i sassi, sotto le stelle.

Un ufficiale è passato fra noi e ci ha ordinato di caricare i fucili e di innastare le baionette.

Nessuno per nessun motivo deve abbandonare il proprio posto:

Alle dieci è cominciata l’azione.

Ecco il pam secco e fragoroso dei fucili italiani.

I fucili austriaci affrettano il loro ta-pum.

Le «motociclette della morte» incominciano a galoppare.

Il loro ta-ta-ta - ta ha una velocità fantastica.

Seicento colpi al minuto.

Le bombe a mano lacerano l’aria.

Dopo mezzanotte il fuoco è di una intensità infernale.

Razzi luminosi solcano ininterrottamente il cielo, mentre si spara disperatamente su tutta la linea.

Raffiche di pallottole scrosciano sulle nostre teste.

— A terra:

A terra: — si grida.

Ma io debbo alzarmi, per cedere il mio posto ad un ferito che ha le braccia massacrate dallo scoppio di una bomba.

Mi chiede con voce lamentosa dell’acqua, ma il soldato portaferiti mi prega di non dargliene.

Copro il ferito con la mia coperta di lana.

Fa freddo.

Dopo mezzanotte una esplosione formidabile ci fa balzare in piedi.

Una mina austriaca ha fatto saltare parte del cocuzzolo occupato da un plotone ***.

Un grande baleno solca il cielo tempestoso e un boato profondo riempie la valle.

Passano altri feriti lievi che si recano senza aiuto al posto di medicazione.

Il fuoco di fucileria diminuisce.

Verso l’alba cessa.

La prima notte di vita in trincea è stata movimentata ed emozionante.

Di buon mattino, i nostri cannoni tempestano di proiettili le posizioni nemiche.

Poi, anche i cannoni tacciono.

Nella valle è la nebbia.

Sulla cima dove ci troviamo, il sole.

Nell’accampamento, il silenzio pieno e pensoso dei soldati all’indomani di una battaglia.

TRA IL MONTE NERO, IL VRSIG E LO JAWORCECK

19 Settembre.

Dopo la distribuzione del caffè, adunata.

Il maggiore Cassola, comandante del battaglione, ci tiene un breve discorso di saluto e di incoraggiamento.

Parole affettuose e toccanti.

Vicino al posto di medicazione, dal quale ci parla il maggiore, è un ferito, con una gamba spezzata da una scheggia di bomba.

Faccia serena.

Profilo delicato.

Chiede un sorso di caffè.

Una sigaretta.

E lo portano via.

Fuoco stracco di fucileria tra le vedette.

Nuova adunata.

È il capitano della compagnia, Vestrini, che viene a salutarci.

Ha la testa fasciata.

Stanotte, mentre in piedi da prode e valoroso dirigeva il combattimento, una pallottola nemica lo ha ferito alla faccia.

Per fortuna, non è grave.

Egli ci dice:

«Il Comando del battaglione vi ha destinati alla mia compagnia.

Da due giorni voi appartenete a un Reggimento eroico che qui, su queste rocciose cime, ha compiuto gesta memorabili.

Queste terre che erano e sono nostre le abbiamo riconquistate.

Non senza spargimento di sangue.

Anche stanotte, una maledetta mina austriaca ha seppellito molti dei miei bersaglieri, ma i nemici l’hanno pagata cara.

Le nostre mitragliatrici, come avete sentito, non sono state inoperose.

Voi siete qui a compiere il più sacro ed il più aspro dei doveri che un cittadino ha verso la patria.

Ma io conto su di voi.

Siete uomini già temprati alle lotte della vita.

Quando sarete amalgamati ed affiatati cogli anziani della compagnia, voi sarete animati dallo stesso entusiasmo e dall’identica indomabile volontà di vincere.

Voi troverete in me, non solo il superiore, ma il padre, ma il fratello.

Dove potrò agevolarvi, lo farò.

Fidatevi di me.

Auguri».

Il capitano ha finito.

Le sue parole, franche e commosse, sono scese nel profondo dei nostri cuori.

È un uomo che inspira molta fiducia e molta simpatia.

Un tenente fa un passo innanzi e grida:

— Bersaglieri dell’ottava compagnia, al vostro capitano Vestrini, hurra:

— Hurra: hurra: hurra: — rispondiamo noi, a gran voce.

I portaferiti stanno ora raccogliendo i cadaveri dei soldati caduti stanotte.

Vengono deposti ai margini della mulattiera, nell’attesa di essere identificati e sepolti.

C’è fra di loro un magnifico tipo di abruzzese, che ho conosciuto ieri.

Ha la testa avvolta in un telo da tenda.

I morti sono coperti.

Non si vedono che le mani irrigidite, nere per il fango della trincea.

I soldati anziani passano e non guardano.

Ho notato — con piacere, con gioia — che tra ufficiali e soldati regna la più cordiale camaraderie.

La vita di rischi continui lega le anime.

Più che superiori, gli ufficiali mi appaiono come fratelli.

È bello:

Tutto il formalismo disciplinare della caserma è abolito.

Anche l’uniforme è quasi abolita.

Proibito — anche nei ripari — di portare il berretto fez.

Abolito il pennacchio tradizionale al cappello.

Caschi di lana invece, che i soldati fregiano esteticamente di una stelletta.

Si può parlare con un ufficiale, senza bisogno di impalarsi sull’attenti.

È difficile, in montagna, star sull’attenti...

Con questi ufficiali, coloro che parlano di un rafforzamento del militarismo colla inevitabile vittoria italiana si divertono a inseguire dei fantasmi.

Il militarismo «made in Germany» non ha attecchito in Italia.

D’altronde questa guerra, fatta dai popoli e non dagli eserciti di caserma, segna la fine del militarismo di casta o professione.

L’enorme maggioranza degli ufficiali italiani è venuta, colla mobilitazione, dalla vita civile.

Tutta l’ufficialità dei subalterni è formata di tenenti e sottotenenti di complemento che si battono e muoiono da prodi.

Alcuni ufficiali mi vogliono conoscere.

Ecco il sottotenente Lohengrin Giraud.

Giovane e valorosissimo.

Proposto per la medaglia d’argento al valor militare.

- Ho un nome tedesco, o piuttosto wagneriano — mi dice — ma detesto i tedeschi.

Mi narra.

L’11 settembre, la 3.a compagnia ebbe l’ordine di attaccare il cocuzzolo dell’Uzsig, di conquistarlo e di gettare in basso — dall’altra parte — gli austriaci.

La compagnia era comandata da Umberto Villani.

Un audace.

Un uomo che non sapeva nè ridere, nè sorridere.

Scoccata l’ora, mezzogiorno e dieci, il Villani si lanciò all’assalto fra i primissimi, alla testa del «plotone d’onore» ch’egli aveva costituito, fra i migliori elementi della compagnia.

Appena iniziato il combattimento, il Villani — che stava ritto in piedi — per ordinare la disposizione delle squadre che avanzavano — fu ferito da una fucilata.

Non se ne curò.

Di lì a pochi minuti fu abbattuto dallo scoppio di una bomba.

Ebbe appena il tempo di gridare:

— Bersaglieri della settima, avanti:

A destra:

A destra:

Stendetevi a destra:

Viva l’Italia:

È morto.

Allora il comando della compagnia fu assunto dal sottotenente milanese Giraud.

In piedi, anche lui, ferito anche lui, non però gravemente, incurante del pericolo e della morte, diresse la furiosissima battaglia, che durò venti ore.

Esaurite le bombe, si ebbe un a corpo a corpo micidiale e indescrivibile.

Ma l’azione fu coronata da successo.

Gli austriaci furono rigettati dall’altra parte del cocuzzolo.

Molti cadaveri nei burroni.

— Mi piacerebbe di averti nella settima compagnia, — mi dice Giraud.

Il tenente Cauda, dei carabinieri, venuto a combattere volontario.

È un sardo.

Coraggio e sangue freddo eccezionali.

Parla lento, all’inglese.

Tenente Corbelli, romagnolo, di Russi.

Una voce:

— C’è qui il bersagliere Mussolini:

— Sono io.

— Vieni che voglio abbracciarti.

E ci abbracciamo.

È il capitano Festa della 10.a compagnia del’... fanteria, che occupa le nostre posizioni.

— La tua campagna giornalistica per l’intervento onora te e il giornalismo italiano: — aggiunge, alla presenza dei bersaglieri disseminati nei ripari.

— Questa, caro Mussolini, è una guerra terribile.

Abbiamo di fronte dei barbari che ricorrono a tutte le insidie.

Ma, — e si volge anche agli altri, — coraggio e, sopratutto, religione del dovere.

Se ne va.

È basso, tarchiato, barbuto.

Porta gli occhiali.

I suoi soldati parlano di lui con venerazione.

La mia compagnia è comandata ai posti avanzati, di guardia.

Tramonto.

Il caporale Claudio Tommei — romano — mi offre un passamontagna e un numero del Rugantino.

Grazie.

Quando, in Italia, si parlava di trincee, il pensiero correva a quelle inglesi, scavate nelle pianure basse di Fiandra e munite di tutto il comfort, non escluso, si dice, il termo -sifone Ma le nostre, qui, a quasi 2000 metri sul livello del mare, sono ben diverse.

Si tratta di buche scavate fra le roccie, di ripari esposti alle intemperie.

Tutto provvisorio e fragile.

È veramente una guerra di giganti quella che i soldati d’Italia — fortissimi — combattono.

Non dobbiamo espugnare delle fortezze, dobbiamo espugnare delle montagne.

Qui, il macigno è un’arma e micidiale quanto il cannone:

Il vento della sera porta in alto il freddo e il fetore dei cadaveri dimenticati.

Notte chiara, di stelle.

20 Settembre.

Appena è giorno, il capitano mi chiama.

Vado con lui alla trincea più avanzata.

Riparato da due sacchetti di terra, posso guardare, con una relativa tranquillità, il luogo conteso.

E uno spiazzo di forse 150 metri quadrati.

Non più.

Il «cocuzzolo» ha perduto i suoi connotati.

È stato spianato, livellato dalle bombe e dalle mine.

Macigni frantumati, grossi pali, fili di ferro, stracci di uniforme, zaini, borraccie: segni delle tempeste.

Gli austriaci sono a trenta metri — appena — da noi.

Non si fanno vedere.

Le nostre mitragliatrici non scherzano.

Chi si scopre, è fulminato.

Un siciliano coraggiosissimo, tal Faina, sta oltre la trincea e getta bombe.

Gli mancano a un certo punto.

Il caporale Morani gliele porta volontariamente.

È appena giunto che una bomba austriaca gli cade vicino.

Per un momento non lo vedo più.

Trepidazione.

Ma ecco che si rialza e viene di corsa verso di noi.

Mi cade tra le braccia.

È soltanto ferito.

Ha il volto sporco di polvere e di sangue.

Le ferite sono alle gambe.

Vuole che io lo accompagni al posto di medicazione.

Lo portiamo in barella, io e il portaferiti Greco.

Il Morani è calmo, tranquillo.

Non un grido, non un gemito.

Contegno da vero soldato.

Il tenente medico gli fa una prima sommaria medicazione e mi assicura che le ferite non sono gravissime.

Ci abbracciamo.

Il Morani è portato via in barella, io torno al mio posto.

Giunge un ordine scritto:

— Il bersagliere Mussolini deve presentarsi, armato, al Comando del Reggimento:

Zaino in spalla.

Un’ora di marcia.

La sede del Comando è in una modesta e rozza baracca di legno.

— Prima di tutto, mi dice il Colonnello, ho il piacere di stringervi la mano e sono lieto di avervi nel mio reggimento, poi, avrei un incarico da affidarvi.

Voi dovreste rimanere con me.

Siete sempre in prima linea, esposto, anche, al fuoco dell’artiglieria.

Dovreste sollevare il tenente Palazzeschi di una parte del suo lavoro amministrativo e dovreste scrivere, nelle ore di sosta, la storia del Reggimento durante questa guerra.

È una proposta quella che vi faccio, beninteso;

non un ordine:

Il colonnello Giuseppe Barbieri è un romagnolo di Ravenna.

Ha infatti la «linea» del romagnolo.

Gli rispondo:

— Preferisco rimanere coi miei compagni in trincea...

— E allora non se ne parla più.

Accettate un bicchiere di vino.

Non è buono il vino del Colonnello, ma in mancanza di meglio...

Ho chiesto e ottenuto di passare alla 7.a compagnia per essere insieme col tenente Giraud.

Alcuni bersaglieri, addetti al comando, mi manifestano le loro meraviglie per il mio rifiuto.

— Sono alla guerra per combattere, non per scrivere:

Risalendo il monte passo vicino alle cucine.

C’è un enorme 305 non esploso.

Poco lungi un cadavere di austriaco abbannato.

Il morto stringe ancora fra i denti un lembo di bavero della sua tunica che — strano: — è ancora intatta.

Ma sotto, attraverso la carne in putrefazione, si vedono le ossa.

Gli mancano le scarpe.

Si capisce:

Le scarpe degli austriaci sono molto migliori delle nostre.

Poco prima di arrivare alla trincea incontro Giraud col mio nuovo capitano, Adolfo Mozzoni.

Gli riferisco il mio colloquio col Colonnello.

Si congratula del mio rifiuto che giudica «nobilissimo».

— Anch’io sono un po’giornalista, mi dice, e faremo insieme un giornale delle trincee.

21 Settembre.

Sono andato a salutare gli amici dell’8.a compagnia.

Trovo il capitano Vestrini, ferito una seconda volta da una pallottola che gli ha attraversato la guancia.

Se ne va all’infermeria.

Tornando al Comando del battaglione, mi consegnano un giornale vecchio di quattro giorni.

Posta dall’Italia, niente ancora.

Pazienza.

Ma un guardafili mi consegna una missiva a mano.

È la lettera scritta a matita da un soldato, che incontrai per la prima volta durante la marcia verso la linea del fuoco a Planina Za-Plecan.

Volle ancora che firmassi una cartolina.

Si è ricordato di me.

È certo Rusconi Francesco, dimorante in via Malpensata 2, a Lecco, e ora appartenente alla 6.a compagnia del...

fanteria.

È un documento interessante, nella sua commovente semplicità, e dimostra da quali spiriti siano sorretti gli umili soldati d’Italia.

Dice:

«Caro Mussolini, sono un povero operaio soldato.

Tratto dagli studi a tenera età per le gravi condizioni di famiglia, veniva posto nella grande fiumana proletaria e da essa coinvolto.

Tanto fu il mio dolore a lasciare le scuole elementari, appena;

ma il pensiero di portare un non lieve contributo di sollievo alle tristi condizioni della mia famiglia, mi rendeva orgoglioso.

Per gli studi, pensavo, dedicherò le ore libere: cosi feci».

Dopo aver parlato delle lotte fra neutralisti e interventisti, prosegue:

«Poco tempo dopo, era per me l’ora di aggiungere l’opera al pensiero.

Son oggi, otto mesi».

Parla del nostro incontro e continua:

«Mi lasciò la sua firma, ma più ancora sento, nel mio cuore e nell’anima mia, una luce viva ed un contento che giammai non scorderò e che mi accompagneranno fino al compimento del destino della Patria...».

Non è semplice e non è grande il linguaggio di questo ignoto soldato operaio:

È venuto l’ordine di dare il cambio alla 9.a compagnia che occupa uno dei costoni avanzati del Vrsig.

Si parte.

Marcio in testa alla colonna, insieme col tenente Giraud.

Tragitto lungo e faticoso.

Attraversiamo due passaggi pericolosi.

Nel l’uno c’è il pericolo delle mitragliatrici; nell’altro c’è il rischio di essere schiacciati dai macigni che gli austriaci rotolano continuamente dall’alto.

Il mio capo squadra è il calabrese Lorenzo Pima di Nicastro, studente, volontario.

Suo padre è un ingegnere del Genio Civile.

— Chi avrebbe mai pensato che mi sarei trovato con Mussolini soldato semplice.

Lo scrivo subito a mio padre, che spesso mi parlava di lei.

Nel primo passaggio scoperto, che attraversiamo — molto distanziati gli uni dagli altri e di corsa — c’è il cadavere di un soldato austriaco.

È voltato con la faccia contro terra.

Rotolando dall’alto, l’uniforme è andata in brandelli.

La schiena è nuda e nera come l’inchiostro.

Fetore.

Il tenente Giraud ci precede sempre.

Nelle sue parole mi sembra di scorgere qualche oscuro presentimento.

— Vedi, Mussolini, qui si può morire e si muore, senza combattere...

Abbiamo appena occupato il ripidissimo pendio del monte che una triste notizia si diffonde fra noi.

Il tenente Giraud è rimasto ferito gravemente dalla fucilata di una vedetta austriaca mentre si recava insieme col capitano e il sergente a ispezionare la posizione.

La pallottola gli è entrata dalla spalla.

Vedo venire verso di me il portaferiti Alberto De Rita che mi dice:

— Il tenente Giraud mi manda a salutarvi...

La notizia ha rattristato profondamente tutti i bersaglieri che amano molto il loro ufficiale e addolora me, in particolar modo.

È sera.

Ci stendiamo accanto agli alberi sulla nuda terra.

Razzi luminosi e pioggia di bombe.

22 Settembre

Calma.

Qualche cannonata, qualche fucilata delle vedette.

Giornata meravigliosa di sole.

Il capitano mi chiama alla sua tenda.

Trovo con lui il sottotenente bolognese Fava, del 27.° batt.

Lunga, amichevole conversazione.

23 Settembre

Siamo a 1897 metri d’altezza.

Il pendio della montagna è del 75 - 80 %.

Una vera parete.

Guai a rotolare un sasso.

Per salire e scendere ci gioviamo di una corda che, legata agli alberi, va dal Comando alla compagnia del posto estremo di collegamento, in fondo alla valle.

Ieri sera, pioggia eccezionale di bombe.

Sono bombe che si annunziano con un sibilo curiosissimo.

Quasi umano.

Sono lanciate col fucile.

Se trovano il terreno molle, non scoppiano.

Ma ieri sera sono scoppiate quasi tutte.

Nessuno di noi ha potuto chiudere occhio.

Un morto e un ferito.

Il morto è tal Bertelli, richiamato dell’84, contadino di Migliarino (Ferrara).

La bomba gli è scoppiata sopra e gli ha squarciato il petto.

Il ferito non è grave.

Si distribuisce la posta.

Niente:

Il mio compagno di trincea, l’abruzzese Giacobbe Petrella, di Pescasseroli (Aquila) lavora furiosamente di vanghetta e piccozzino per rendere un pochino più solido il nostro riparo.

Accanto a me, alcuni bersaglieri giocano tranquillamente a sette e mezzo.

È quell’indemoniato di Marcanio che tiene il banco.

Mi metto a giocare anch’io e perdo.

Se non tuonasse il cannone non sembrerebbe di essere in guerra.

Giornata di grande sole.

24 Settembre.

Nel bosco è un lento cadere di foglie.

Si diffondono tra le squadre le prime notizie.

Non sono liete.

Ieri sera, sull’imbrunire, un richiamato che si recava di corvée a prendere il pane, nell’attraversare la solita posizione scoperta è stato fulminato da una fucilata.

Si chiama Biagio Benati, dell’84, ferrarese anche lui.

Vedo passare gli zappatori.

Il porta-mensa degli ufficiali.

tal Rossi Giuseppe, manca.

Ferito:

Morto:

Disperso:

Bombe bombe, bombe tutta la notte, sino all’alba.

Nessun morto, alcuni feriti.

Mattinata di sole e di cannoneggiamento.

Passa un Taube altissimo.

Bianco.

A tremila metri.

La posta.

Per noi, richiamati dell’84, nulla.

È triste:

25 Settembre.

Stanotte dalle 2 e 30 alle 4 e un quarto sono montato di vedetta per la nostra squadra che si trova a un posto avanzato.

Era con me, altra vedetta, Barnini Washington, certaldese.

Vero toscano del paese di Boccaccio: ogni parola due bestemmie.

Sono stato con orecchi ed occhi spalancati, ma nessuno si è visto.

Quattro bombe sono scoppiate a pochi metri dal nostro posto.

Luna velata da nubi bianche.

Veniva dal burrone il tanfo dei cadaveri insepolti.

Il bel tempo è finito.

Ieri, ancora il sole — un po’stanco — del settembre; oggi la nebbia, la pioggia, il freddo dell’inverno.

Turbinio di foglie che cadono con rumore secco sui nostri teli da tenda.

I miei compagni della prima squadra, Pinna, Petrella, Barnini, Simoni, Parisi, Di Pasquale, Bottero, Pecere, accovacciati come me sulla nuda terra, nel cavo di una roccia, dalla quale filtra l’acqua, sono silenziosi.

Qualcuno dorme.

Piove.

26 Settembre.

Piove sempre.

Da ventiquattro ore.

Io sento l’acqua fredda che mi lava la pelle e finisce nelle scarpe.

Stanotte un nostro posto di collegamento di quattro uomini e un caporale è stato catturato dagli austriaci truccati da bersaglieri.

Nessuna nuova del portamensa Rossi.

Il sergente Simonelli lo dà per «disperso».

Stanotte nessun ferito.

Grazie all’umidità del terreno poche bombe sono scoppiate.

Il capitano Mozzoni, che ha ricevuto in dono due bottiglie di cognac, lo ha fatto distribuire ai bersaglieri.

L’atto indica il cuore e la grandezza dell’uomo.

Mentre scrivo la pioggia è diventata nevischio che batte sonoramente e rabbiosamente sulla nostra tenda.

Il che non impedisce a Pinna e Barnini di intonare una canzone nella quale si parla di una «regina, che si vorrebbe incoronare».

Romba, a intervalli, il cannone.

Ora cantiamo tutti insieme:

E la bandie-era

Dei tre colo-ori

E sempre stata la più bella, bella, bella

Noi vogliamo sempre quella

Noi vogliamo la libertà...

Distribuzione gratuita di tabacco, sigari, sigarette.

Parisi m’insegna:

«Non bisogna accendere in tre collo stesso fiammifero.

Altrimenti muore il più piccolo dei tre».

Superstizioni delle trincee.

Accendiamo in due.

Fumo.

27 Settembre.

Da ieri mattina non abbiamo in corpo che un sorso freddo di caffè.

Piove sempre.

Da due giorni ininterrottamente.

Stanotte non ho chiuso occhio.

Mi trovavo sotto la tenda con un tal Iannazzone, un contadino del Beneventano, il quale inzuppato fradicio, come me, e un po’febbricitante gemeva:

— Madonna mia bella:

Madonna mia bella:

— Basta, basta, Iannazzone: - gli ho detto.

— Non credete in Dio, voi:

Non ho risposto.

Io, invece, ingannavo il tempo, le dodici ore interminabili della notte, rimemorando le poesie imparate nel tempo felice e lontano della giovinezza.

Effetto delle circostanze climateriche, la poesia che ho rimemorata è La caduta del Parini.

Strofa a strofa sono giunto sino ai versi:

Ed il cappello e il vano

Baston dispersi nella via raccoglie.

Poi non mi sono ricordato più.

Cambiamo posizione.

Andiamo in fondo alla valle, alle sorgenti dello Slatenik, un torrente che sbocca nell’Isonzo, nella conca di Plezzo.

Nei ripari che gli austriaci hanno abbandonato, troviamo un po’piu di comfort.

In questa zona sono ancora i segni della travolgente avanzata degli italiani.

Sul terreno tormentato e sconvolto, sono disseminati, in disordine, bossoli di proiettili d’ogni calibro, giberne, scarpe, zaini, pacchi di cartucce, fucili, cassette di legno sventrate, tronchi d’alberi abbattuti, reticolati di ferro travolti, scatolette di carne vuote con diciture tedesche e ungheresi, fazzoletti, teli da tenda.

Qua e là sono degli austriaci morti e malamente sepolti.

Tra gli altri un ufficiale.

La Posta: pacchi e lettere, ma per me e per tutti i richiamati dell’84 niente ancora.

Soffia un vento impetuoso e freddo.

Distendiamo sui cespugli, al sole, le nostre mantelline e coperte inzuppate d’acqua.

29 Settembre.

Due giorni e due notti di pioggia.

Tempesta.

Veniva dal Monte Nero.

Sono, siamo fradici sino alle ossa.

I bersaglieri preferiscono il fuoco all’acqua.

Fuoco di piombo, si capisce.

Ma stamani, sole.

Il Rombon ci appare bianco di neve.

Il sole tepido fa dimenticare le giornate piovose.

Lo Slatenik — ingrossato — urla in fondo al vallone.

Si distribuisce la posta.

Finalmente, dopo quindici giorni, c’è qualche cosa anche per me.

Nel trincerone che occupiamo si può accendere il fuoco.

Ogni tenda ha il suo.

Qui, l’unico pericolo — oltre a quello delle cannonate e delle pallottole vagabonde — è dato dai macigni che rotolano dall’Vrsig.

Di quando in quando si sente gridare:

— Sasso:

Sasso:

Guai a chi non lo evita a tempo:

L’...

bersaglieri è stato rudemente provato, ma il «morale» dei soldati è eccellente.

Anche i «poilus» dell’84 stanno cambiando psicologia.

Diventano soldati.

Sembrano già lontanissimi i primi giorni, quando bastava il rombo del cannone o il fischio di una pallottola o la vista di qualche cadavere per emozionarli.

Distribuzione di alcuni indumenti invernali.

Sono ottimi.

30 Settembre.

Ho portato — poichè li desiderava — alcuni numeri arretrati del Popolo al mio capitano.

Niente in lui del militare di professione.

Era aiutante in prima;

ha preferito riassumere il comando della compagnia.

Uomo che conosce gli uomini, soldato che conosce i soldati.

I bersaglieri gli vogliono molto bene.

Non ha bisogno di ricorrere a misure disciplinari per ottenere che ognuno adempia al proprio dovere.

Mi offre biscotti e tre pacchetti di sigarette.

È con lui il tenente Morrigoni, romano, simpaticissimo e fortunato.

È giunto, dal 12.°, un cadetto destinato al comando del primo plotone della nostra compagnia:

Fanelli, di Bari.

Giornata tranquilla.

I.° Ottobre.

Piove.

Il mio capitano, in un rapporto indirizzato al colonnello, fa vivi elogi del mio spirito militare e della mia resistenza alle prime e più gravi fatiche della guerra.

Verso sera, intenso fuoco di fucileria e di mitragliatrici alle falde dell’Jaworceck.

Che gli altri battaglioni abbiano impe gnato un combattimento:

2 Ottobre.

Sono giunti altri ufficiali.

I cadetti Barbieri e Raggi.

Ora i quadri della nostra compagnia sono al completo.

Gli austriaci bombardano con granate incendiarie il villaggio di Cezzoga.

3 Ottobre.

Il piantone della fureria, Lamberti, mi reca un biglietto del capitano, che dice:

«Sarebbe mio desiderio che ai bersaglieri della compagnia fosse espresso nel modo più sentito alla loro anima semplice e buona, il mio vivo compiacimento per la fusione già stabilitasi fra i vecchi e i giovani bersaglieri; ciò che dimostra quale spirito di cameratismo animi il loro cuore.

La serena giocondità, il sentimento di disciplina, la disinvolta resistenza ai disagi cui sono sottoposti, vengono da me così apprezzati, tanto da sentirmene fieramente orgoglioso.

Tuttociò è indice di alto sentimento del dovere e dà affidamento della più salda compagine qualora a nuovi cimenti si possa essere chiamati.

Al bersagliere Mussolini affido l’incarico di scrivere un ordine del giorno di compagnia che in una sintesi concettosa e bersaglieresca esprima tali miei apprezzamenti, con l’esortazione a perseverare e colla visione di quegli ideali fulgidissimi di Patria e di famiglia che costituiranno a suo tempo il premio più sensibile per il sacrosanto dovere compiuto».

Io mi domando:

ma non è già questo un ordine del giorno bellissimo:

Che cosa posso dire, io, di meglio e di più:

Tuttavia, obbedisco.

Fra anziani e richiamati, si cominciano a stabilire rapporti di amicizia.

Nel primo plotone, di richiamati non ci sono che io.

Tutti gli altri sono anziani che si trovano al reggimento dal principio della guerra.

Spesso mi raccontano episodi interessantissimi.

L’avanzata su Plezzo, le azioni sull’Vrsig.

I caporali hanno riunito le squadre e leggono l’ordine del giorno.

4 Ottobre.

Cielo stellato sino a mezzanotte.

Stamane nevica.

Ci esercitiamo al lancio di bombe.

5 Ottobre.

Stanotte sono stato quattro ore di vedetta.

Pioveva.

6 Ottobre.

— Zaino in spalla:

È giunto l’ordine di raggiungere sullo Jaworceck gli altri battaglioni.

Ci mettiamo in marcia.

Il capitano ci precede.

Porta lo zaino e la caramella.

Sosta al comando del reggimento.

Discorso del Colonnello, seguito dalla lettura di un lungo elenco di bersaglieri della 7.a proposti per una ricompensa al valor militare.

— Bersaglieri della settima al Colonnello dell’..., hurrà:

— Hurra:

Pulizia al fucile.

Distribuzione di scarpe.

Durante queste operazioni, faccio la conoscenza di un sergente degli alpini, di Monza, ferventissimo interventista, entusiasta della nostra guerra.

Giunge 1’8.a compagnia.

Qualcuno mi annuncia che il caporale Buscema è rimasto ferito da una cannonata il 26 settembre.

Il Colonnello ripete il discorso ai bersaglieri dell’8.a Crepuscolo.

Si parte.

La marcia di stanotte fra tenebre fittissime, per una mulattiera scoscesa e fangosa, entro un bosco, è stata dura.

Parecchie volte i plotoni hanno perduto il collegamento.

Alcuni bersaglieri sono caduti e non hanno potuto proseguire.

Anch’io — come tutti — sono caduto varie volte, ma l’unico danneggiato è l’orologio che porto al polso.

Non va più.

Dieci ore di marcia.

Siamo giunti alle due del mattino.

Per fortuna, c’erano, in alto, le stelle.

Non pioveva.

Ci siamo allogati fra i macigni nell’attesa dell’alba.

8 Ottobre.

Sveglia alle cinque.

Ci spostiamo verso l’alto di un altro centinaio di metri.

Ci troviamo sotto a una delle «pareti» ripidissime del Jaworceck.

Dalla cima le vedette austriache sparano continuamente.

Mi metto a lavorare accanitamente di vanghetta e piccone, per farmi un buon riparo.

Petrella mi aiuta.

Ritrovo il tenente Fava, che mi presenta al capitano della sua compagnia, Jannone.

Gli amici degli altri battaglioni — appena saputo del nostro arrivo — mi vengono a cercare.

Rivedo il caporale maggiore Bocconi, barbuto e un po’dimagrito, il caporale maggiore Strada, ex- vigile milanese, sempre pieno di entusiasmo;

il caporale Corradini che mi racconta la straordinaria avventura toccatagli.

Doveva andare di guardia, con una squadra, al quarto boschetto.

Giunto a un passaggio obbligato e scoperto, sul quale gli austriaci rotolavano continuamente sassi e macigni, il Corradini, volendo appunto evitare un macigno, mise il piede in fallo e rotolò giù, in fondo al burrone.

Una notte intera rimase laggiù, nel fango, sotto la pioggia, ritenendosi ormai perduto.

— Fu il pensiero della mia piccina, che mi diede il coraggio — egli mi dice.

— A giorno fatto, risalii il pendio del monte.

Nella caduta aveva perduto tutto: zaino, fucile, mantellina.

Giunsi a un piccolo posto di fanteria.

La vedetta mi intimò l’alt.

Quando il caporale del piccolo posto mi ebbe ricononosciuto come appartenente all’esercito italiano, mi lasciò passare.

Potei riguadagnare — sano e salvo — la mia compagnia.

Ecco Rampoldi, ex-cuoco del Casanova.

Lo chiamavano Rampoldo, Rampoldino...

Ritrovo ancora vivi e in gamba i milanesi Spada, Frigerio, Sandri.

Viene anche a trovarmi, per conoscermi, il caporale Giustino Sciarra, di Isernia.

Ha una curiosa barbetta a punta, rossigna.

Cordialità, simpatia, auguri.

Si parla di un’avanzata imminente.

9 Ottobre.

Dormito profondamente tredici ore.

La stanchezza è passata.

C’è un ferito dell’8.a compagnia che viene portato in barella.

Una pallottola lo ha colpito mentre si scaldava al fuoco.

Canticchia e fuma.

I scelti tiratori austriaci sparano sempre.

Un forte gruppo di ferraresi viene alla mia tenda e mi prega di porgere un saluto collettivo da mandarsi a un giornale di Bologna.

Fatto.

Corvée di riattamento alla mulattiera.

Il caporale milanese Bascialla, ch’è stato stanotte di guardia ai posti avanzati, mi narra un episodio singolare.

Si è trovato — in un riparo - accanto a un bersagliere che pareva dormisse.

Egli ha provato a chiamarlo.

A scuoterlo.

Non rispondeva.

Non si moveva.

Era morto.

Il Bascialla ha passata tutta la notte accanto al cadavere.

Ore quindici.

Raffica di artiglieria austriaca.

Crepitìo di proiettili.

Schianto di rami.

Turbine di scheggie.

Un grosso ramo, stroncato da una granata, si è abbattuto sul mio riparo.

Ci sono due feriti nella mia compagnia.

Passa un morto del 39.° battaglione.

Un altro morto degli alpini.

Il bombardamento è finito.

È durato un’ora.

I bersaglieri escono dai ripari.

Si canta.

Lunga conversazione col capitano della 4.a compagnia.

Argomento: i colpi di scena balcanici.

Il capitano Bono è un ingegno versatile e di vasta coltura.

Non dimenticherò il tremito della sua voce, quando — me presente — essendogli giunto uno di quei moduli coi quali si chiedono ai Reparti notizie di militari, dovette scrivere la parola: morto.

Sera di calma.

Qualche fucilata solitaria delle vedette fischia di quando in quando nella boscaglia.

10 Ottobre.

Mattinata meravigliosa di sole.

Orizzonte limpidissimo.

Si ordina la statistica dei caricatori.

Ogni soldato deve averne 28.

Ore dieci.

Uno shrapnel è passato fischiando sulle nostre teste.

In alto.

Non trascorrono cinque minuti, che un secondo shrapnel scoppia con immenso fragore a tre metri di distanza dal mio «ricovero», a un metro appena dalla tenda del capitano.

Ero in piedi.

Ho sentito una ventata violenta, seguita da un grandinare di scheggie.

Esco.

Qualcuno rantola.

Si grida:

— Portaferiti:

Portaferiti:

Sotto al ricovero ci sono due feriti che sembrano gravissimi.

Un grosso macigno è letteralmente inaffiato di sangue.

Gli ufficiali sono in piedi che impartiscono ordini.

— Le barelle:

Le barelle:

I feriti sono molti e bisogna chiedere le barelle alle altre compagnie del battaglione.

Ci sono anche dei morti:

due.

Uno è Janarelli, l’attendente del tenente Morrigoni.

Una palletta di shrapnel gli è entrata dal petto e gli è uscita dalla schiena.

Gliel’hanno trovata fra la pelle e il farsetto a maglia.

- Tenente, mi abbracci, ha detto Janarelli.

Per me è finita.

Vedo il tenente Morrigoni, cogli occhi luccicanti di lacrime.

- Era tanto bravo e tanto buono:

Lo Janarelli sembra dormire.

Solo attorno alla bocca c’è una grossa rosa di sangue.

L’altro è un richiamato dell’84.

Una scheggia gli ha spezzato il cranio.

Una riga rossa gli divide a metà la faccia.

I feriti sono nove, dei quali tre gravissimi e due disperati.

— Zappatori, in rango colle vanghette:

Gli zappatori si riuniscono coi loro strumenti.

Adagiano i morti su barelle fatte con rami d’albero e sacchi e se ne vanno.

Qui non si può fare un cimitero.

Bisogna seppellire i caduti qua e là, nelle posizioni più riparate.

L’emozione della compagnia è stata fugacissima.

Ora si riprende il chiaccherio.

Si fischierella.

Si canta.

Quando lo spettacolo della morte diventa abitudinario, non fa piu impressione.

Oggi per la prima volta ho corso pericolo di vita.

Non ci penso.

Dopo un mese mi lavo e mi pettino.

Schampoing al marsala.

Passa il tenente Francisce della 15.a compagnia, il quale mi racconta:

«Ieri sera gli austriaci hanno inscenato una dimostrazione anti-italiana.

Hanno cantato in coro il loro inno nazionale.

Poi hanno gridato:

— Kicckiriki, Kikiriki:

Hanno aggiunto:

— Bersaglieri dell’11.a vi aspettiamo:

Alla fine, una voce di ufficiale ha urlato al megafono:

— Italiani farabutti, lasciateci le nostre terre:

11 Ottobre.

Meravigliosa mattinata di sole.

Il secondo, il terzo, il quarto plotone della mia compagnia levano le tende e si spostano per essere defilati dai tiri degli shrapnel.

Noi restiamo al nostro posto.

Passa un morto della 13.a Bombardamento di un’ora a shrapnel.

Conversazione col capitano Bono.

La vita in trincea è la vita naturale, primitiva.

Un po’monotona.

Ecco l’orario delle mie giornate.

Alla mattina non c’è sveglia.

Ognuno dorme quanto vuole.

Di giorno non si fa nulla.

Si può andare — con rischio e pericolo di essere colpiti dall’implacabile «Cecchino» — a trovare gli amici delle altre compagnie; si gioca a sette e mezzo o, in mancanza di carte, a testa e croce;

quando tuona il cannone, si contano i colpi.

La distribuzione dei viveri è l’unica variazione della giornata: di liquido ci danno una tazza di caffè, una di vino e un poco di grappa;

di solido un pezzo di formaggio che può valere venti centesimi e mezza scatoletta di carne.

Pane buono e quasi a volontà.

Di rancio caldo, non è questione.

Gli austriaci — tempo fa — hanno bombardato coi 305 le cucine e hanno fatto saltar per aria muli, marmitte e cucinieri.

C’è un’ora, nella giornata, che i bersaglieri attendono sempre con impazienza e con ansia: l’ora della posta, che comincia a giungere regolarmente.

Ci pensa Jacobone, per il Reggimento.

Nostro «postino» è il calabrese Suraci.

Quando si grida «posta» tutti escono dai ripari e si affollano attorno al distributore.

Nessuno pensa più alle fucilate e agli shrapnel.

Ho scritto una lettera per Jannazzone e una per Marcanico.

Non si negano questi favori a uomini che possono morire da un momento all’altro.

La fidanzata di Marcanico si chiama Genovieffa Paris.

Questo nome mi riporta, chissà perchè, al tempo dei «Reali di Francia».

12 Ottobre.

Pulizia al fucile.

Sole pallido.

Poi, non c’è nulla da fare.

Passano i soliti feriti.

C’è il bersagliere Donadonibus che si spidocchia al sole.

— Cavalleria, a destra:

Cavalleria, a sinistra:

— grida e ride, di un riso che sembra quello di un uomo completamente felice.

Pioggia e pidocchi, ecco i veri nemici del soldato italiano.

Il cannone vien dopo.

Uno dei feriti dello shrapnel è morto prima di arrivare all’infermeria reggimentale.

Altra notizia triste: la fucilata di una vedetta ha colpito a morte tal Mambrini, mantovano, mentre stava lavorando a fortificare il suo riparo.

La guerra di posizione esige una forza e una resistenza morale e fisica grandissime:

si muore senza combattere.

13 Ottobre.

Stanotte, sulle 23, improvviso e intensissimo fuoco di fucileria e di mitragliatrici ai nostri avamposti.

Siamo balzati dai nostri ripari.

Un quarto d’ora di fuoco e poi quiete sino all’alba.

Mattinata grigia.

Vado di corvée colla mia squadra e mi carico di un sacco di pane.

Passa un morto del 39.° batt.

colpito da fucilata e da sassata.

Si diffonde tra le squadre la notizia che presto ci sarà l’«azione».

La notizia non deprime ma solleva gli animi.

È la prolungata inazione che snerva il soldato italiano.

Meglio, infinitamente meglio al fuoco, che sotto al fuoco.

I bersaglieri sono desiderosi di vendicare i compagni caduti a tradimento.

Vicino a me si canta.

È un inno bersaglieresco.

Piume baciatemi

Le guancie ardenti

Piume riditemi

Di gioia i canti:

E ripetetemi

Avanti:

Avanti:

14 Ottobre.

Stamane, solito passaggio di feriti non gravi.

Le vedette austriache, implacabili, non cessano un minuto solo di sparare.

Ore quindici.

L’artiglieria austriaca, dal Lipnik, io credo, comincia a bombardare la nostra posizione.

Venti colpi da 280 che scoppiano in fondo alla valle.

Quattro non scoppiano.

Grida di gioia e di scherno partono dai nostri ripari.

Cessa il 280 e comincia il cannoncino.

Lo chiamiamo così, col vezzeggiativo, perchè sparando quotidianamente ci è diven tato ormai famigliare, ma si tratta di un cannone da montagna da 75.

E credo che ce ne sia più d’uno.

Quasi tutti gli shrapnels battono la zona occupata dal nostro battaglione.

Ci mettiamo in quattro testa a testa contro un grosso tronco d’albero che ci ripara magnificamente.

È con noi un alpino sorpreso dalla raffica mentre andava a prendere acqua.

Scrosciano le pallette, cadono le ramaglie, turbinano le foglie.

È finita.

Troviamo qualche palletta, qualche scheggia ancora calda.

Adesso sono i nostri cannoni che cominciano a sparare.

Gli austriaci tacciono.

Allegria, per noi.

Passano tre feriti di cui uno solo relativamente grave, perchè ha una gamba spezzata.

In fondo alla valle il 280 ha fatto qualche vittima.

Ci sono alcuni morti — fantaccini e bersaglieri — dei «posti di collegamento».

Serata di calma.

Qua e là si levano delle voci che cantano.

Ma non sono canzoni del repertorio patriottico.

Sono del repertorio «soldatesco» e popolare.

Bisogna distinguere.

Salvo una che ha un ritornello che dice

Trento e Trieste

Ti renderò

le altre canzoni sono ben lontane dagli avvenimenti attuali.

L’immortale Violetta tiene ancora il primo posto:

E la Violetta

La va, la va...

Alcuni che devono essere reduci dalla Libia, cantano invece:

Da Tripoli a Gargaresch

Si marcia in ferrovia...

E non manca la canzonetta scollacciata, anzi oscena:

All’osteria del numero uno...

Dammela ben, biondina

Dammela ben, biondinaaa...

Il soldato italiano è allegro, particolarmente quando non piove.

E anche quando piove, accetta la bagnura con molta filosofia.

15 Ottobre.

Notte di burrasca.

Il vento mugghiava dal Monte Nero alla Conca di Plezzo e andava a schiantarsi contro la parete altissima e già bianca del Rombon.

Mattinata grigia incerta.

Passano due bersaglieri morti.

Devono essere caduti stanotte ai piccoli posti.

Noi li vediamo passare, portati dai portaferiti, e seguiti dagli zappatori che devono scavare la fossa.

Nessuno di noi domanda chi siano.

Si preferisce ignorare.

Alcune ore di lavoro per riaccomodare il nostro riparo, sconquassato dalla tempesta di stanotte.

Fuoco stracco di fucileria tra le vedette.

Uno dei nostri spara con un fucile austriaco.

Tutte le mattine, al momento della distribuzione del caffè sorgono discussioni e battibecchi fra bersaglieri e bersaglieri e sopratutto fra bersaglieri e caporali.

Strano:

sono uomini che potrebbero morire da un minuto all’altro e si bisticciano per un sorso di caffè.

Ma il fatto si spiega:

anzitutto, il caffè è l’unico liquido che il soldato desideri e beva con piacere e vantaggio; poi, nessuno crede di dover morire, e infine per un senso profondo di giustizia distributiva.

Quando le razioni non sono uguali per tutti, si grida:

— Camorra:

Non fare camorra:

Pur troppo la camorra nel senso soldatesco della parola c’è.

Al soldato che sta nelle prime linee, e dovrebbe essere «sacro», non giunge che la minima parte di ciò che gli spetta, giusta il regolamento di guerra.

Caffè, cioccolato, vino, grappa passano per troppe mani di conducenti, caporali, piantoni.

La «camorra» sembra essere un fatto normale, ma irrita grandemente i soldati, specie in guerra.

C’è il caso di sentirli dire:

Governo ladro:

La «camorra» finisce per esercitare influenza deprimente su quello che si chiama il «morale» delle truppe.

Io penso che se, per rendere contenti questi soldati, occorre eliminare gli abusi della piccola «camorra» e distribuire razioni abbondanti e giuste di caffè, il problema è di facile soluzione.

Importate, se occorre, tutto il caffè del Brasile...

Sono giunti gli elmetti per gli shrapnels.

Sei per compagnia, finora.

Recano sul davanti queste iniziali R. F.:

République Francaise.

L’... bersaglieri è il reggimento italiano per eccellenza.

Tutti o quasi i distretti d’Italia vi sono rappresentati.

C’è qualche sardo, ci sono dei siciliani di Cefalù; dei calabresi; dei pugliesi di Bari e Lecce; degli abruzzesi di tutte e quattro le provincie; dei napoletani di Napoli e Caserta; dei romani; dei toscani di Siena, Firenze, Massa-Carrara; dei marchigiani di Ancona, Ascoli-Piceno, Pesaro; degli emiliani di Ferrara, dei lombardi di Milano, Brescia, Cremona, Bergamo, Lecco, Sondrio, Mantova: dei veneziani di tutte le provincie, eccettuato Udine e Belluno.

In guerra, si disprezza il denaro.

Chi ne ha, lo manda a casa.

Non si sa nemmeno come spendere la cinquina.

C’è il vivandiere, ma sta molto lontano e non ha che delle scatole di sardine.

Giunge di notte e di giorno se ne va.

Il valentuomo ha paura delle granate e degli shrapnels.

Se io fossi nel colonnello, lo costringerei a rimanere — con noi — in prima linea.

16 Ottobre.

Notte eccezionalmente calma.

Anche la vedetta austriaca ha riposato.

Niente «ta-pum».

Stamani, sole.

Passano sulle nostre teste — in alto, molto in alto — dei proiettili d’artiglieria, ma non si capisce di dove vengano, nè dove siano diretti.

Il tenente Morrigoni, di complemento, mi annuncia la sua promozione a capitano, di complemento.

Lascierà la compagnia.

Il tenente Fanelli se ne va all’infermeria.

Ha i piedi rovinati dal freddo e dall’umidità.

Due feriti di pallottole.

Distribuzione di cioccolato, mandato da un ignoto amico.

— C’è qualcuno che si ricorda di noi:

La Libera Stampa di Locarno mi giunge con un articolo dedicato alla memoria di Giulio Barni, caduto sul campo di battaglia.

Povero ed eroico amico:

I superstiti fra noi, ti ricorderanno sempre.

Cader prigionieri, in mano agli austriaci:

ecco un’eventualità che spaventa i miei commilitoni.

— Piuttosto morire, — dicono tutti.

Questo spiega il numero esiguo di prigionieri italiani fatti dall’esercito austriaco.

Quelli del nostro reggimento non arrivano alla decina e sono sempre stati colti di sorpresa.

Qui, nessuno dice:

torno al mio paese:

Si dice:

tornare in Italia.

L’Itala appare così, forse per la prima volta, nella coscienza di tanti suoi figli, come una realtà una e vivente, come la Patria comune, insomma.

17 Ottobre.

Domenica.

La mattinata si annunzia calma.

C’è in alto un sole meraviglioso.

Ma, improvvisamente, verso le nove, un proiettile da 280 austriaco passa sulle nostre teste, col suo sibilo feroce.

Scoppia lontano, giù verso lo Slatenik.

Di li a poco, un secondo colpo, accorciato.

Un terzo, 200 metri più giù dal posto che occupiamo.

Un quarto dietro a noi.

Gli austriaci tirano a caso.

Battono la zona.

«Tiro di sfottimento», come lo chiamiamo noi.

Ecco il sibilo del sesto colpo.

Lo sento sopra di me.

Vicino, vicino, vicino, a sessanta centimetri passa sopra le nostre teste.

Io e Petrella siamo immobili a terra.

Il minuto d’attesa ci è parso lunghissimo.

Il proiettile è scoppiato a meno di tre metri dal punto in cui ci troviamo.

Colla sola corrente d’aria ha scoperchiato tutto il nostro riparo.

Detonazione formidabile.

Grandinare di scheggie enormi e di sassi.

Un albero è stato sradicato.

Alcuni macigni frantumati.

Ci troviamo letteralmente coperti dalla testa ai piedi di terriccio, sassi e ramaglie.

— Sei vivo:

— Vivo.

La cinghia del mio fucile è stata tagliata da una scheggia.

Gavetta e tascapane sono crivellati di proiettili.

Il fucile di Petrella ha la cassa spezzata.

Tutti gli alberi vicini presentano la corteccia lacerata.

Noi siamo miracolosamente incolumi.

Passa di corsa da un riparo all’altro l’attendente del maggiore Cassola, il milanese podista Terzi, il quale grida:

— Bersaglieri del 33:

Ordine del maggiore, ritirarsi armati satto al costone:

Obbediamo.

Tutto il battaglione è, ora, riunito sotto una roccia al riparo dei colpi del 280.

Passo dinnanzi al Comando del battaglione.

C’è il Maggiore, il capitano Mozzoni, il capitano Vestrini.

Ho la faccia nera di terriccio:

— Che cosa ti succede, Mussolini:

— mi domandano.

— L’ultimo 280 mi è scoppiato vicino.

— L’hai scampata bella...

Per la seconda volta a distanza di sette giorni ho corso serio e immediato pericolo di vita.

Bastava che il proiettile fosse scoppiato soltanto un passo indietro per ridurmi a brandelli.

Iannazzone mi dice:

— Si fussi in voi, porterei uno cero a Montevergine:

Il bombardamento non è continuato.

Il mio, è stato l’ultimo colpo.

Ritorniamo ai nostri ripari.

Nel pomeriggio calmo, molti si fermano ad osservare la buca enorme prodotta dallo scoppio del 280.

Io trovo una scheggia ancor tepida che peserà un paio di chilogrammi.

La metto tra i miei cimeli di guerra.

L’artiglieria di grosso calibro fa meno vittime, forse, di quella di medio e piccolo calibro, ma esercita una influenza deprimente sullo spirito dei soldati.

Il soldato di fanteria si sente disarmato, impotente contro il cannone.

Quando l’artiglieria batte le nostre posizioni, ognuno di noi è come un condannato a morte.

Il sibilo annunzia il proiettile e ogni soldato si domanda:

Dove scoppierà:

Contro il cannone non c’è alcuna difesa possibile, all’infuori di quella costruita dai «ripari» che sono poco profondi e pochissimo consistenti.

Si tratta di sassi ammucchiati insieme con zolle di terra.

Bisogna restare immobili, contare i colpi e attendere che il bombardamento finisca.

Per un’altra ragione il cannone impressiona il soldato, ed è il genere di ferite ch’esso produce.

Le pallottole di fucile o di mitragliatrice non straziano, come un proietile di cannone.

C’è un solo morto.

Il caporal- maggiore dei zappatori del 27.° batt.

Un milanese, a quanto mi dicono.

È stato decapitato da una scheggia del 280.

Verso sera vado a cercare dove l’hanno sepolto.

È in un angolo sotto una roccia, vicino a un tourniquet della mulattiera.

Sulla croce, sotto al nome e cognome, c’è un’epigrafe breve e affettuosa.

Era un valoroso.

A piè della croce ci sono alcune cartoline illustrate.

Sulla terra fresca, qualcuno ha sparso delle foglie.

Alle Casette — si tratta di due capanne di legno — ritrovo il caporal maggiore milanese Garbagnati.

È addetto ai viveri.

Mi offre da bere.

C’è una colonna di muli che arrivano.

Si sentono da lontano, per il batter dei ferri sui ciottoli del sentiero.

Serata tranquilla.

18 Ottobre.

Notte calma.

Mattinata di sole.

Nel pomeriggio comincia la sinfonia dei nostri cannoni.

Sparano da tutte le cime.

Noi ignoravamo l’esistenza di tante batterie.

Ecco i 75 nostri.

Hanno un sibilo e uno scoppio secco e rabbioso.

I 149 sono imponenti.

La detonazione dei loro proiettili è quasi gioviale, nella sua profondità.

I 210 hanno un boato breve e sordo.

Poi, c’è il nostro simpaticissimo 305.

Viene di lontano, di là dai monti, come un pellegrino.

Passa sulle nostre teste lento e solenne.

Lo si può seguire coll’udito lungo il tragitto.

Il colpo di partenza non si sente, tanto è lontano, ma sentiamo quello d’arrivo.

Lo scoppio di un 305 italiano, fa tremare la montagna.

Se l’artiglieria nemica deprime, l’artiglieria nostra solleva.

Quando i nostri cannoni sono in funzione, i bersaglieri si danno alla pazza gioia.

Girano da riparo a riparo, fischiano, cantano.

Accompagnano i proiettili con grida, con auguri.

Il soldato di fanteria non ha che un desiderio: quello di sentir sempre la voce dei nostri cannoni, sempre, di notte e di giorno.

Quando sono i cannoni austriaci che sparano e i nostri tacciono, i bersaglieri impazienti...

protestano contro la nostra artiglieria che... risparmia le munizioni.

L’azione della nostra artiglieria è durata un paio d’ore.

Passano delle corvées cariche di munizioni.

Ci sono delle casse di bombe sulle quali sta scritto:

Haut, Bas. Eviter les cnocs.

L’avanzata sembra imminente.

Sintomatico:

I bersaglieri non dicono: combattimento, azione, battaglia; no.

Dicono: avanzata.

Sembra, per loro, già assiomatico, intuitivo, necessario che una battaglia nostra debba risolversi in un’avanzata.

Non è sempre cosi.

Ma l’uso generale e unico di questo vocabolo è un altro sintomo dello spirito di aggressività che anima i soldati italiani e della loro certezza di vincere.

Ciò che più mi ha stupito e commosso in questo primo mese di trincea, è lo stoicismo incredibile di cui danno prova i soldati italiani feriti.

Il mio riparo è sulla mulattiera.

Ho... la finestra sulla strada.

Tutto passa sotto i miei occhi.

Ho veduto decine e decine di feriti.

I lievi, quelli colpiti a un braccio, per esempio, vanno all’infermeria da soli.

Qualcuno, che pur aveva le carni lacerate da scheggie di proiettili, fumava tranquillamente una sigaretta.

Non un lamento.

È straordinario:

È ammirevole:

Un mantovano, con un braccio quasi tagliato da una scheggia, si reca da solo al posto di medicazione.

E dice al tenente che si affretta attorno a lui, per la prima medicazione:

— Tenente, tagli il resto:

E mi faccia dare un po’di pagnotta.

Questo stoicismo è il prodotto dell’atmosfera in cui si vive.

Nessun soldato ferito vuol mostrarsi debole e pauroso del proprio sangue, dinanzi ai compagni.

Non solo.

C’è una ragione più profonda.

Non si geme per una ferita, quando si corre continuamente il rischio di morte.

La ferita è il meno peggio.

Comunque, il silenzio superbo di questi umili figli l’Italia, dinanzi al dolore della carne straziata dall’acciaio rovente, è un’altra prova della magnifica solidità della nostra stirpe.

19 Ottobre.

Notte agitata.

Bombardamenti lontani e profondi.

Dicono che è in direzione di Tolmino e Gorizia.

L’«azione» sembra fissata per domani.

Sole.

Comincia il concerto maestoso, formidabile delle nostre artiglierie.

Chi sta — anche per una giornata sola — sotto il bombardamento di un centinaio di cannoni che sparano simultaneamente, riporta un’impressione indimenticabile, sbalorditiva.

Alla sera, si è intontiti.

I nervi non rispondono più.

Alcune voci del gergo di guerra, in voga nel mio reggimento:

— scalcinato:

soldato debole; baule: cretino; fila: paura; svirgola: cannonata; omnibus: proiettile da 305; pizzicare: ferire; spicciarsela: trovarsi nell’imbarazzo; pallot tola intelligente: pallottola che ferisce soltanto; pipa: rimprovero; girare la matricola: idem; far scrivere a casa: togliere qualcosa a un soldato; far fesso: idem c. s.; far camorra:

farsi la parte del leone; essere fuori uso:

inabile alle fatiche di guerra; marcar visita:

recarsi dal medico;

vedere il mago: rimanere indietro;

avanzare verso le cucine: retrocedere; tagliar la corda: fuggire; portare a casa la ghirba:

tornare a casa sano e salvo.

La ghirba è un recipiente di tela impermeabile che serve per portare acqua, vino, caffè.

È giunto il Colonnello.

Anche Padre Michele, il Cappellano del Reggimento, è arrivato.

Ma gli scotta il terreno sotto i piedi.

Ieri sera sono stato di corvée, Mi sono successivamente caricato di cento sacchetti vuoti, che dovranno poi — riempiti di terra — servirci per i nostri ripari;

d’una cassa di bombe e di uno scudo d’acciaio che deve d’ora innanzi proteggere coloro che devono tagliare i reticolati.

Ma pesa molto:

tredici chilogrammi e mezzo.

Finito di lavorare a mezzanotte.

Stanchissimo.

Il fuoco di fucileria degli alpini sul Vrsig mi ha svegliato verso l’alba.

Tuonano i nostri cannoni, ma l’attacco si dice, è rinviato a domani.

LE NOSTRE TRUPPE AVANZANO SU RIVA E OLTRE MONFALCONE.

21 Ottobre.

Ieri gli austriaci hanno sparato sui portaferiti che passavano per la mulattiera in fondo alla valle.

Un portaferiti è stato mortalmente colpito.

È nella zona di Tolmino- Monte Nero che romba — da stamani — più profondamente il cannone.

Fra un’ora dovrebbe iniziarsi l’azione del nostro reggimento.

Il mio battaglione è di «rincalzo» fra il 27.° e il 39.°

Il Capitano mi ha proposto — con motivazioni assai lusinghiere — per la promozione a caporale.

Mezzogiorno.

Una voce ci grida.

dall’alto:

— Tutti nei ripari:

Io tardo un poco, ma due granate che sfiorano il nostro riparo mi spingono nella tana.

S’inizia il concerto delle ar tiglierie.

Ore lunghe di attesa e di immobilità.

I nostri cannoni tuonano sempre per proteggere l’avanzata di alcune squadre del 27.° batt.

Ore cinque.

Usciamo dalla buca, a dispetto del solito cannoncino austriaco che ci batte a shrapnel.

Passano, nel crepuscolo, i feriti dell’«azione».

Un sergente è il primo.

Vengono due capitani, il Morozzo e il Mirto.

Quest’ultimo ha la testa bendata.

Passa fumando, tranquillamente, una sigaretta.

Il 39.° batt.

ha avuto 54 feriti e nemmeno un morto.

Intanto gli austriaci hanno incendiato il «boschetto» per impedire la nostra avanzata.

Le fiamme altissime arrossano l’orizzonte.

22 Ottobre.

Tre mine di proporzioni colossali sono state fatte scoppiare dagli austriaci sulla cima del Javorcek, sollevando un turbine di macigni e di sassi.

Nessuna vittima.

Oggi secondo giorno dell’azione.

Tuonano sempre i cannoni.

Alla nostra sinistra, sul Piccolo Javorcek, fuoco vivissimo di fucileria.

23 Ottobre

Ieri sera — a notte fatta — quattro colpi da 280.

Poi a due riprese fuoco intenso di fucileria austriaca e di cannoni di piccolo calibro.

Dopo, durante la notte, calma.

La Divisione ha mandato un fonogramma d’augurio all’... Bers., nella ricorrenza, tragica e gloriosa ad un tempo, di Sciara- Sciat.

Il mio vice-squadra, Mario Simoni, di Camerino, che si trovava in Libia ed era attendente del colonnello Fara, mi racconta spesso come si svolse l’episodio di Sciara-Sciat.

Circa i risultati della nostra «azione» non sappiamo nulla di preciso.

È rimasto ferito il ten.

colonnello Albarelli.

Passa — fasciato al capo — il cap. magg.

Corradini.

Non è grave.

Ecco due morti, vittime del 280.

Uno di essi è ridotto un informe ammasso, avvolto in un telo di tenda.

Comincia in questo momento, ore dieci, la quotidiana sinfonia dei nostri cannoni.

Volo basso di corvi.

Nel pomeriggio gli austriaci hanno bombardato per tre ore la posizione occupata dalla mia compagnia.

Sono gli incerti dei «rincalzi».

Ci siamo «ingrottati» in tempo.

Alcuni feriti.

Non comprendo perchè si faccia una distribuzione quotidiana di grappa ai soldati.

In quantità minima, è vero, ma si dà ai soldati una pessima abitudine.

Il «sorso» d’oggi predispone al bicchierino di domani.

Inoltre, c’è chi riesce qualche volta a berne troppa e offre uno spettacolo poco edificante.

L’unica punizione che sia a mia conoscenza è stata inflitta appunto a un caporale che aveva abusato di grappa ed è stato retrocesso.

La nostra guerra, come tutte le altre, è una guerra di posizioni.

Guerra grigia.

Guerra di rassegnazione, di pazienza, di tenacia.

Di giorno si sta sotto terra: è di notte che si può vivere un po’più liberi e tranquilli.

Tutta la decorazione della vecchia guerra è scomparsa.

Lo stesso fucile sta per diventare inutile.

Si va all’assalto di una trincea colle bombe, colle micidialissime granate a mano.

Questa guerra è la piu antitetica al «temperamento» degli italiani.

Eppure colle nostre meravigliose facoltà di adattamento ci siamo abituati alla guerra delle trincee, alla guerra del fango, dell’insidia continua, che pone il sistema nervoso a una prova durissima.

È straordinaria la resistenza ai disagi e al freddo dell’alta montagna, in uomini che vengono da paesi dove non nevica mai:

Molte volte ho sorpreso nei discorsi dei miei commilitoni questa affermazione:

— Se fossimo in pianura e in campo aperto gli austriaci sarebbero presto spacciati:

24 Ottobre.

Notte di calma assoluta.

Mattinata deliziosa di sole.

Il primo colpo di cannone è italiano.

Poi, silenzio.

E finita l’azione:

Non ne so nulla.

Il Rampoldi, passando dalla mia trincea, mi dice che alcuni dei nostri riparti sono giunti sino al cimitero degli ufficiali austriaci, ma non mi sa dire se ci siano restati.

Non tarderò a saperlo, perchè il nostro battaglione darà fra poco il cambio al 39.°

Anche il pomeriggio è calmo.

Sono chiamato alla tenda del tenente Giuseppe Pianu, comandante interinale dell’82.a comp.

alpini che sta per ritirarsi a quota 1270.

Il Pianu è un sardo e non gli mancano le qualità fisiche e morali dei sardi.

Nella tenda ci sono altri ufficiali.

Fra gli altri il sottotenente medico Scalpelli.

Chiacchiere.

Posiamo tutti in sieme per un gruppo fotografico.

Io tengo, nella destra, una bomba.

Il Pianu — ufficiale valorosissimo — mi narra episodi ignoti o poco noti delle prime avanzate italiane nella zona del Monte Nero.

Accetto il suo invito e resto a cena con lui e con gli altri.

«Menu» da Grande Ristorante: risotto, carne arrosto, frittata, frutta, dolce.

Vini:

Chianti da pasto e Grignolino in bottiglie.

È la cena di commiato.

Gli alpini che si sono preparati — silenziosamente — alla partenza, sfilano già per la mulattiera.

Pianu fa levare la sua tenda.

Ci salutiamo con fraterna cordialità.

25 Ottobre.

Cielo di tempesta.

Il sole non riesce a rompere la cortina di nuvole che nascondono il Monte Nero.

Ecco: gli austriaci ricominciano a bombardarci.

Sono in funzione cannoni di molti calibri:

65, 75, 155, 280.

Nel pomeriggio un colpo solo di cannone ha ucciso quattro dei nostri.

Ordine di levare le tende e di occupare la posizione tenuta dalla 9.a compagnia, che va agli avamposti.

26 Ottobre.

Ci siamo spostati di alcune decine di metri, a destra, in alto.

Siamo ora a quota 1300 circa.

Il mio riparo è molto meno solido di quello che ho abbandonato.

Inutile fortificarlo.

Non resteremo qui che due o tre giorni.

27 Ottobre.

Nevica.

La neve filtra dal nostro riparo, dove siamo in cinque.

Accendiamo il fuoco.

Ora è permesso.

Ma il fumo ci acceca.

Il cannoncino inizia la sua solita quotidiana sfottitura.

Totale: colpi 50 a shrapnel.

Tiro stracco e inefficace.

Alcuni feriti.

Il 4.° plotone della nostra compagnia si è recato di guardia agli avamposti.

28 Ottobre.

La nostra artiglieria bombarda le posizioni degli austriaci.

Giunge una triste notizia.

Il nostro plotone di guardia è stato «provato» duramente dall’artiglieria austriaca.

29 Ottobre.

Neve in quantità.

L’aspirante ufficiale Raggi è venuto nel mio ricovero e mi ha parlato dell’episodio di ieri.

Egli è rimasto miracolosamente incolume.

Gli austriaci prodigano le cannonate, anche quando il bersaglio è costituito da un soldato solo e non meriterebbe uno spreco di munizioni.

Fatto si è che gli austriaci hanno sparato 47 colpi da 75 contro un riparo dove stavano rannicchiati cinque bersaglieri e l’aspirante Raggi.

La penultima cannonata è stata micidiale.

Uno dei bersaglieri ha avuto braccia e gambe spezzate.

Un altro è stato ferito meno gravemente.

Infine il cap. magg. Camellini, della classe dell’84, ha avuto un braccio nettamente asportato da una scheggia.

Solo ieri sera, dopo una iniezione di caffeina, praticatagli al posto di medicazione, riprese i sensi.

Volle abbracciare e baciare il Capitano.

Gli austriaci sparavano a granata.

Alzo zero.

Distanza 300 metri.

I miei commilitoni ignorano completamente le vicende e i successi dell’offensiva italiana sugli altri punti del fronte.

Siamo in due a leggere i giornali.

Io e il caporale milanese Vismara, che riceve l’Italia.

Mi domando:

perchè non si pubblica e non viene diffuso fra le truppe combattenti — composte oggi di soldati in grandissima maggioranza alfabeti — un Bollettino degli Eserciti d’Italia:

Bisettimanale o trisettimanale, il Bollettino dovrebbe contenere i Comunicati del nostro Esercito e quelli delle Nazioni Alleate, unitamente a qualche articolo e racconto di episodi di valore, atti a tenere elevato il morale delle truppe.

30 Ottobre.

Notte agitata.

Ieri sera gli austriaci hanno fatto esplodere una mina di proporzioni enormi.

Pareva che tutta la montagna dovesse «saltare».

Le signorine impiegate al Credito Italiano — Sezione di Milano — mi hanno mandato due grossi pacchi di indumenti di lana.

Prima novità gentile di questa mattinata grigia di pioggia a raffiche.

L’INVERNO NELLE TRINCEE DELL’ALTA MONTAGNA.

31 Ottobre.

Giornata di sole e di calma.

Corre voce che fra qualche giorno il nostro battaglione andrà per qualche tempo in riposo a Ternova, sull’Isonzo.

La notizia rende allegri i miei commi litoni, ma io ho ragione di ritenerla infondata.

Non turbo la loro gioia.

È giunto un battaglione di fanteria del...; ecco l’origine della voce.

Nei «ricoveri» si canta, si fuma, si scrive.

Nessuno bada al monotono, insistente stillicidio della vedetta austriaca.

Il portaferiti De Rita, di Frosinone, narra le sue avventure americane.

È stato sei anni nel Nord-America.

Si dichiara repubblicano.

— E perché:

— gli ho chiesto.

— Perchè sono stato a New-York...

In realtà, non sa nemmeno il significato della parola «repubblica».

È, fra l’altro, quasi analfabeta.

Ma è coraggioso, resistente alle fatiche.

I suoi battibecchi coll’altro portaferiti tengono allegra la brigata.

Un’altra voce:

Tolmino è caduta...

Nel pomeriggio ricevo un invito dal caporale Giustino Sciarra, di Isernia, della 13.° compagnia.

Egli è stato all’infermeria per farsi visitare dal Capitano e gli è riuscito di portare in trincea un paio di bottiglie di Asti spumante.

Beviamo alla salute del Reggimento e alle fortune d’Italia.

La giornata non finisce bene.

Verso le cinque fischia uno shrapnel.

Uno solo.

Da un riparo si leva un grido di dolore:

ci sono tre feriti, ma sono, fortunatamente, non gravi.

I Novembre.

Comincia — per me — il terzo mese di guerra.

Che cosa mi porterà:

Notte di quiete e di sogni.

Da qualche giorno, salvo la cannonata di ieri sera, l’artiglieria nemica tace.

Anche il «cannoncino» riposa.

Che significa:

Sono state trasportate altrove le batterie che tiravano sulla nostra posizione:

O si prepara con una copiosa scorta di munizioni un bombardamento in piena regola di qualche giorno:

Chissà.

Nei ripari si lavora accanitamente.

Ogni tenda ha il suo fuoco.

Si annuncia che Padre Michele dirà messa al Comando.

Ma, della mia compagnia nessuno si muove.

Pomeriggio.

Il cielo incupisce.

Pioggia a raffiche.

— È la burrasca del giorno dei morti, — mi dice qualcuno.

Tutti gli anni è così.

— Ore lunghe.

Accanto a me, Rizzati, Massari, Sandri, tutti di Ferrara, parlano tranquillamente di canapa, di mediazioni, dei mercati, di barbabietole, come se non avessero altra preoccupazione.

Nella tenda vicina i cremonesi Balista e Schizzi cantano una parodia del tantum-ergum.

Ora la pioggia è diventata nevischio.

Terzi, l’attendente del tenente colonnello Cassola, mi dà - passando — una notizia tristissima: la morte di Corridoni.

Attendo, con ansia, il giornale.

L’ingegnosità dei soldati italiani si rivela nelle trincee.

Avere una candela in trincea è un privilegio consentito soltanto agli ufficiali, e non sempre.

Ma i bersaglieri hanno risolto — con la massima economia di mezzi e colla più grande semplicità di apparecchi — il problema della illuminazione serale.

Le notti sono ora così lunghe:

Si prende una scatola di carne in conserva vuota.

Si versa dentro un po’d’olio di scatola di sardine, insieme a un po’di grasso liquefatto della scatoletta di carne.

Colle pezze da piedi — debitamente sfilacciate — si fa lo stoppino che si immerge nell’interno, mentre una delle sue estremità esce fuori da un buco praticato verso il fondo della scatola.

Si accende, e se lo stoppino è bene inzuppato, si ottiene una luce un pochino più scialba di quella di una lampada ad arco..., ma sufficiente per leggere e scrivere una lettera.

Provare per credere.

2 Novembre.

Corridoni è caduto sul campo di battaglia.

Onore, onore a Lui:

Scrivo alcune righe per il Popolo dedicate alla sua memoria.

Ho comunicato la notizia al mio commilitone.

il gasista milanese Pecchio.

Sulle prime era incredulo.

Quando gli ho mostrata la prima pagina del Popolo, ha creduto ed ha pianto.

Nevica rabbiosamente.

Tutti i monti sono già bianchi.

Ordine di affardellare gli zaini e di tenersi pronti per partire.

La nostra compagnia deve sostituire la 9.a che si trova già da cinque giorni ai posti avanzati.

Dopo due mesi comincio a conoscere i miei commilitoni e posso esprimere un giudizio su di loro.

Conoscere è forse troppo dire.

Le mie conoscenze sono limitate al mio plotone e — un poco — alla mia compagnia.

La trincea nell’alta montagna costringe ogni soldato a vivere da solo o con qualche compagno, nella propria tana.

Cerco di scrutare la coscienza di questi uomini, fra i quali, per le vicende guerresche, io debbo vivere e chissà...

morire.

Il loro «morale».

Amano la guerra, questi uomini:

No.

La detestano:

Nemmeno.

L’accettano come un dovere che non si discute.

Il gruppo degli abruzzesi che ha per «capo» o «comparo» il mio amico Petrella, canta spesso una canzone: che dice:

E la guerra s’ha da fa,

Perchè il Re, accusi vuol.

Non mancano coloro che sono più svegli e coltivati.

Sono quelli che sono stati all’estero, in Europa e in America.

Hanno letto prima della guerra qualche giornale.

In guerra sono anti - tedeschi e belgofili.

Quando il soldato brontola, non è più per il fatto «guerra», ma per certi disagi e deficenze ch’egli ritien imputabili ai «capi».

Io non ho mai sentito parlare di neutralità o di interventismo.

Credo che moltissimi bersaglieri, venuti dai remoti villaggi, ignorino l’esistenza di queste parole.

I moti di maggio non sono giunti fin là.

A un dato momento un ordine è venuto, un manifesto è stato affisso sui muri: la guerra:

e il contadino delle pianure venete e quello delle montagne abruzzesi, hanno obbedito, senza discutere.

Nei primi tempi della guerra, i bersaglieri hanno valicato il confine, cogli inni sulle labbra e la fanfara alla testa dei battaglioni.

Dopo due mesi di sosta a Serpenizza, venuto finalmente:

l’ordine di riprendere l’avanzata, i bersaglieri hanno conquistato — al passo di corsa, malgrado un turbine di cannonate — la Conca di Plezzo e si sono trincerati a quattrocento metri oltre la citta, che gli austriaci hanno poi quasi completamente distrutta colle granate incendiarie.

Quando i bersaglieri narrano gli episodi di quell’avanzata, vibra ancora nelle loro parole la soddisfazione e l’entusiasmo della conquista.

La vita di trincea — monotona ed aspra — contrassegnata soltanto dallo stillicidio quotidiano dei morti e dei feriti, indurisce i soldati.

Parlar loro, non si può.

Riunire gli uomini, in prima linea, per tener loro un discorso, significa esporli a un sicuro immediato massacro da parte dell’artiglieria nemica.

È il «nemico», la presenza del «nemico» che spia e spara a cinquanta, cento» metri, ciò che tiene elevato il «morale» dei soldati: non i giornali che nessuno legge; non i discorsi che nessuno tiene...

Sono religiosi questi uomini:

Credo non troppo.

Bestem miano spesso e volentieri.

Portano quasi tutti al polso una medaglia di santo o di madonna, ma ciò equivale a un portebonheur.

È una specie di «mascotte» sacra.

Chi non paga il suo tributo alle superstizioni delle trincee:

Tutti: ufficiali e soldati.

Lo confesso:

porto anch’io nel dito mignolo un anello fatto con un chiodo di ferro da cavallo.

Questi soldati sono nella loro grandissima maggioranza solidi, sia dal punto di vista fisico che morale.

Se il vecchio Enotrio Romano tornasse al mondo, dinanzi a questi uomini meravigliosi nella loro tenacia, nella loro resistenza, nella loro abnegazione, non direbbe più come un tempo:

La nostra patria è vile:

Quale altro esercito terrebbe duro in una guerra come la nostra:

3 Novembre.

Ieri sera ci siamo spostati di duecento metri più in alto, a destra.

Ora comprendo l’obbiettivo della nostra azione.

Bisognerebbe occupare la depressione fra l’Vrzy e il Jaworcek, per tagliare — io credo — la linea della difesa austriaca.

A squadre e plotoni, abbiamo impiegato, per spostarci, quasi due ore.

Non pioveva, per fortuna.

Il mio riparo è relativamente buono.

Da stamani pioggia e neve.

La mitragliatrice austriaca spara, ma siamo «defilati» e finora nessuno dei nostri è rimasto ferito.

Ci troviamo in mezzo al fango.

Camminare nella mulattiera significa immergersi nella melma fino al ginocchio.

Fra i ripari corre un vero torrente di mota.

Qui, siamo più raccolti.

I cannoni austriaci tacciono sempre.

Anche i nostri riposano.

Anche se piove, anche se nevica o tempesta, quando i cannoni tacciono, c’è allegria fra noi.

4 Novembre.

Ieri sera il mio plotone — il primo — è stato comandato ai piccoli posti.

Siamo partiti alle diciotto.

Pioggia a scrosci.

Buio pesto.

Siamo montati a uno a uno — in fila indiana — per un camminamento franato e pieno di fango.

Quando i razzi luminosi degli austriaci solcavano il cielo, ci gettavamo di colpo a terra.

Giunti alla posizione non è stato facile trovarmi un ri -

paro.

Non un barlume di luce, all’infuori di quella dei razzi, spenti i quali, le tenebre erano piu dense di prima.

Finalmente ci siamo cacciati io e il mio capo -squadra Mario Simoni, dietro un masso roccioso.

Ho chiesto al mio capo-squadra:

In caso di un attacco austriaco, qual’è la nostra fronte:

— Quella a destra...

La risposta non mi ha convinto.

La responsabilità delle guardie avanzate sulle linee del fuoco è terribile.

Devono costituire una garanzia e una prima valida difesa per coloro che stanno dietro.

Per fortuna, gli austriaci non prendono mai l’offensiva per i primi.

Possono controattaccare, ma «attaccare», no.

Verso mezzanotte, dopo sei ore di pioggia e di tuoni, si fa un grande silenzio bianco.

È la neve.

Siamo sepolti nel fango, fradici sino alle ossa.

Simoni mi dice:

— Non posso muovere più le punte dei piedi...

E la neve cade lenta, lenta.

Siamo bianchi anche noi.

Il freddo ci è penetrato nel sangue.

Siamo condannati all’assoluta immobilità.

Muoversi significa «chiamare» la mitragliatrice austriaca.

Vicino a me c’è qualcuno che si lamenta.

II tenente Fanelli lo redarguisce, con voce sommessa, ma il bersagliere risponde e c’è nella sua voce tremante una invocazione quasi disperata.

— Tenente, sono gelato.

Non mi «fido» più...

È un meridionale.

Ma anche il Tenente, che è di Bari, deve versare in critiche condizioni.

Poco dopo infatti chiama me e il Simoni e ci manda insieme dal Capitano per chiedere il cambio della guardia.

Sono le quattro.

La nostra guardia dovrebbe durare ancora quattordici ore.

Trovo il Capitano nel suo riparo.

Egli, insonne, veglia.

Fuma, si trovano in sua compagnia i sottotenenti Raggi e Daidone.

— Ebbene:

— Signor Capitano, il tenente Fanelli mi manda a dirle che i bersaglieri di guardia non resistono più.

Dopo sei ore di pioggia, quattro ore di neve...

Il Capitano mi fa qualche altra domanda e poi volgendosi al sottotenente Raggi gli dice:

— Lei va a dare il cambio con una squadra del 3.° plotone.

— Benissimo, Capitano.

Le chiedo però un favore:

mi dia una sigaretta...

Sono tornato al mio riparo.

L’ho trovato ancora in piedi, mentre moltissimi erano franati.

È finalmente l’alba.

È stata la notte più dura dei miei due mesi di trincea.

5 Novembre.

A giorno fatto:

— Primo plotone, zaino in spalla...

Scendiamo — per asciugarci un poco — alla posizione che occupavamo prima.

Il nostro passaggio viene subito notato dalle vedette austriache.

Ta-pum.

Ta-pum.

Ta-pum.

Sette feriti cadono uno dopo l’altro.

Di gravi non ce n’è che due.

Giunti al luogo indicato, accendiamo dei grandi fuochi.

Anche il sole viene a salutarci.

Il sereno nel cielo riconduce la gioia fra noi.

Il fuoco non asciuga soltanto i nostri indumenti infangati, ci rallegra.

Pietroantonio, un abruzzese, tornato volontariamente dall’America, insieme ad altri 2000 per servire la Patria, ci racconta episodi interessanti sulla vita delle nostre colonie d’oltre Oceano.

Immenso l’entusiasmo col quale fu accolta la nostra dichiarazione di guerra all’Austria.

Moltitudini di uomini assediavano i Consolati per la visita militare e il rimpatrio.

— Ho visto — dice Pietro Antonio — alcuni «scartati» mordersi per la rabbia.

Si comprende.

I milioni e milioni di italiani — in particolar modo meridionali — che negli ultimi venti anni hanno battuto le strade del mondo, sanno — per dolorosa esperienza — che cosa vuol dire appartenere a una nazione politicamente e militarmente svalutata.

Ho asciugato al fuoco anche le pagine di questo diario.

Alcune coll’acqua sono diventate indecifrabili.

6 Novembre.

Tornando ieri sera dalla posizione dove ci eravamo asciugati e rifocillati, ho trovato il mio riparo occupato da altri.

Gli artiglieri della Sezione che è con noi mi hanno afferto ospitalità sotto alla loro tenda.

Sono stati gentilissimi.

Hanno voluto dividere con me il loro rancio.

C’è fra di loro un volontario, tal Cecconi, vicentino.

Stamani, cielo buio, di tempesta.

Al lavoro:

Bisogna costruirsi il «ricovero».

Tre ore di fatica.

Grande fuoco per asciugare un poco il terreno sul quale dovremo stenderci...

E giunto dalla Divisione, per telefono, l’ordine di partenza per il Plotone accelerato degli Allievi Ufficiali.

Del mio Reggimento siamo soltanto in cinque:

io, Lorenzo Pinna, Vismara, di Milano;

Moscatiello e Inglese, di Napoli.

Lascio la compagnia.

Saluto il Capitano e gli Ufficiali.

Tutti i bersaglieri mi gridano il loro augurio.

Addio:

Addio:

Non sono contento.

Mi ero ormai abituato alla trincea.

Scendiamo allo Statenik.

Tre ore di marcia faticosa.

In certi punti la mulattiera è tutta un pantano.

A quota 1270, o Trincerone, tappa.

Il maresciallo Zanotti deve farci il foglio di via.

Al Trincerone c’è il 27.° a riposo.

In tutti i ripari ardono grandi fuochi.

Qua e là si canta a gran voce.

Piove.

Ci ripariamo nella baracca del cantiniere.

Come letto:

il rivestimento di paglia delle bottiglie.

Dormire:

Niente.

Poco lungi è Jacobone, napoletano, che dirige un coro di milanesi.

Si canta a voce spiegata la canzone della «povera Rosetta»...

Ai ventisette agosto

Era una notte oscura

Commisero un delitto

Gli agenti della

Questura...

7 Novembre.

Prima di scendere a Caporetto ci siamo recati alle cucine del nostro battaglione, dove i nostri amici ci hanno regalato un caffè, come si dice in gergo militare, «fuori d’ordinanza».

Il tempo non e malvagio.

In marcia:

È la strada di circa due mesi fa.

Ecco il laghetto di Za Kraju.

Ecco il Cimitero del... Bersaglieri.

Un piccolo muro di cinta.

In mezzo una grande croce, con tenaglia, martello, chiodi e un gallo più abbozzato che scolpito.

Attorno, attorno, le fosse.

Quante:

Un centinaio e più.

Una è coperta da un grosso macigno.

Mi avvicino e leggo:

Sottotenente Conte Luigi Alberti

Su un altro grosso macigno c’è una bella epigrafe, deturpata, però, da un errore grafico.

Invece di nuova, è scritto nuoja.

Un altro masso indica una fossa collettiva.

C’è scritto sopra:

Qui tutti riuniti.

La vista di questo cimitero solitario, a piè dei costoni ripidi del Monte Nero, ci rende melanconici e silenziosi.

Incontriamo una lunga colonna di muli che viene da Ternova.

Ecco Tresenga, formicolante di soldati.

Le campane della chiesa — bella e grande — che suonano mezzogiorno, mi fanno una strana impressione.

A Tresenga si lavora.

Sorgono da ogni parte baracche.

Da Tresenga a Caporetto pochi chilometri.

Bella strada.

Carrozzabile.

Cominciano i segni dell’«altra vita».

Incontriamo degli ufficiali dall’uniforme impeccabile.

Attendenti pasciuti e rubicondi, a cavallo.

I soldati hanno una cera molto, molto meno selvaggia della nostra.

La guerra vista nelle retrovie non è simpatica.

Ecco l’Isonzo impetuoso e ceruleo.

Caporetto.

S’è — in questi due mesi — ingrandito, abbellito.

Sempre lo stesso formidabile movimento di camions e di carri d’ogni genere.

I paesani guardano con una certa curiosità i nostri abiti laceri e infangati, le nostre mani e i nostri volti sudici e anneriti.

Noi siamo — modestamente:

— un po’fieri, di essere oggetto della curiosità della gente.

14 Novembre.

Dopo sei giorni passati a Vernasso — ambiente mediocre — stamani, domenica, un ordine è venuto, portato da un motociclista della Divisione.

E l’ordine dice:

«Il Bersagliere Mussolini torna al Reggimento».

Non domando perchè.

La notizia non mi sorprende e non mi addolora.

Dò un’occhiata al Monte Nero, tutto incappucciato di neve e mi dico:

Domani sarò a quota 1270:

Da S. Pietro N. si vede nettamente stagliarsi sul fondo dell’orizzonte il famoso «Naso di Napoleone».

I miei amici del plotone si mostrano non meno sorpresi e molto più addolorati di me.

La trincea non ha fascino per loro, sebbene fossero quasi tutti allogati nei «posti ufficiali» e quindi lontani dal pericolo immediato.

Pochi saluti, in fretta.

Zaino in spalla.

Mi presento in fu reria.

Il maresciallo c’è.

Mi paga la cinquina, mi presenta la «bassa» di marcia e una scatoletta di carne.

Sono nella strada.

Mi fermo a S. Pietro, al Comando di Tappa, per attendere un camion automobile che mi trasporti a Caporetto.

Ma qui faccio un incontro inatteso.

Trovo Alberto Meschi, ex- segretario della Camera del Lavoro di Carrara, soldato della territoriale, regg.

... Egli mi dà un recapito per Caporetto: si tratta di certo Oreste Ghidoni, che ha aperto a Caporetto un negozio di tessuti e panni.

Ma mentre passeggiamo lungo il marciapiede, ecco giungere il Ghidoni su un carro.

Mi presenta.

Il Ghidoni è un mantovano, traslocatosi a Carrara.

È già sera.

Ci fermiamo a Pùlfero, villaggio a 10 chilometri da S. Pietro.

All’osteria troviamo — naturalmente — dei soldati.

Ci sono degli alpini che tornano dal fronte, si recano a Targetto per il plotone allievi- caporali;

ci sono dei fanti del distretto di Cremona e della classe dell’83 che vanno a Caporetto.

Uomini maturi, ma solidi e pieni di buon umore.

Essi mi dicono che nel cremonese non c’è miseria e che la popolazione attende con fiducia l’esito della guerra.

15 Novembre.

Oggi è il primo anniversario della fondazione del Popolo d ltalia.

Ricordi, nostalgie.

Mattinata grigia.

Partiamo da Pulfero alle 9.

Per giungere a Caporetto ci vogliono tre ore.

Solito enorme movimento di camions e di carri.

Si dice che il fronte mangia per le retrovie, ma le retrovie mangiano il fronte.

Nelle retrovie c’è un vero, formidabile esercito, mentre la linea del fuoco è un sottile velo che sembra sfumare nella lontananza.

Durante il tragitto il Ghidoni mi racconta i «casi» della politica carrarina.

Sono interessanti.

Passo le ore libere del pomeriggio per Caporetto.

La cittadina è sempre piena zeppa di soldati.

Sono sorti qua e là grandi baraccamenti e qualche edificio in pietra.

Verso sera, mi reco al Camposanto militare.

Il numero delle croci è aumentato.

Saranno quattrocento.

Quelle degli ufficiali una quarantina.

Primo di questi, il colonnello Negrotto.

Sulla sua tomba c’è una grande corona in bronzo degli irredenti.

Ora vado leggendo alcuni dei nomi sulle croci.

V’è anche qualche austriaco.

L’unica fossa che abbia dei fiori è quella di un soldato austriaco e sulla croce sta scritto:

Joseph Waltha, dell’esercito nemico.

Il fatto è sintomatico.

In un angolo del Cimitero pei civili, ci sono due fosse senza croce e senza nome.

Un soldato mi spiega che si tratta di due gendarmi austriaci fucilati dai nostri all’inizio delle ostilità.

All’estremità del Cimitero militare che è cintato da un semplice filo di ferro, giunge un carro ricoperto e trascinato da due soldati zappatori.

Ci sono due casse da morto.

Aiuto a scaricare la prima.

E’pesante.

Sono due soldati morti all’ospedaletto da campo.

Crepuscolo.

Melanconia.

Ritorno in piazza.

Compero il Resto del Carlino e trovo la prima notizia del bombardamento di Verona.

Crocchi di soldati leggono.

Molti altri vanno in chiesa.

Vado anch’io.

La chiesa di Caporetto ha ai lati due gallerie, dalle quali si sporgono i fedeli, come dalle loggette di un teatro.

Banchi, gallerie, scalinata, sono gremiti di soldati.

C’è anche qualche ufficiale.

Ce ne sono dei vecchi e dei giovanissimi.

Un territoriale degli alpini, accanto a me, ha negli occhi un luccicore di lacrime.

All’altare officia un prete che intona le laudi.

I soldati rispondono in coro «Ora pro nobis».

Verso la fine, accompagnati dalle note gravi e profonde dell’organo, i soldati cantano un inno.

Il coro si leva solenne e riempie la chiesa.

Io taccio:

ignoro l’aria e le parole.

Il ritornello dice:

Deh, benedici, o madre,

L’italica virtù;

Fa che trionfino le nostre squadre

Nel nome santo del tuo Gesù.

Il coro è finito con un lungo gemito dell’organo.

I soldati sfollano.

L’aria dell’inno mi piace, le parole no.

16

Novembre.

Sono l’unico bersagliere dell’11.° che ritorni al Reggimento.

In marcia.

Vicino a Tresenza passo dinnanzi a una polveriera.

La sentinella mi guarda e mi riconosce.

È un soldato romagnolo del 120.° fanteria.

Soffia dal Monte Nero un vento di neve.

Mi affretto.

Niente tappa a Rawna.

Qui ci sono dei bersaglieri del mio battaglione venuti in corvée.

Mi dicono che il 33.° battaglione si trova a quota 1270 e non sull’Jaworcek.

Notizia consolante.

Sei ore di marcia di meno.

Lunga teoria di muli carichi di soldati coi piedi congelati.

A Za Kraju incontro una barella coperta.

C’è un morto che viene portato a Caporetto.

Segue un caporale che piange.

Lo conosco.

È dell’8.a compagnia.

Mi dice singhiozzando:

— Il morto è il sottotenente Mario Bottigelli, milanese.

È stato fulminato da una pallottola, ieri sera mentre disponeva il suo plotone di guardia.

Ora lo portiamo al Cimitero di Caporetto.

Al Cimitero del 6.° Bersaglieri, mi sferza la faccia una prima folata di nevischio.

Il Monte Nero non si vede più.

Neve.

Neve.

In trincea, dove sono giunto dopo tre ore di marcia sotto la neve, ho ritrovato i miei amici, soldati e ufficiali, che mi hanno accolto festosamente.

Notte di uragano.

Eravamo nel ricovero in undici.

Mal riparati.

Freddo siberiano.

Ma stamani c’è il sole...

Benito Mussolini