Guerra e fede: frammenti politici Frase: #118
Autore | Gentile, Giovanni |
---|---|
Professione Autore | Filosofo, intellettuale, politico |
Editore | Riccardi |
Luogo | Napoli |
Data | 1919 |
Genere Testuale | Saggio |
Biblioteca | Pisa, Filosofia e storia |
N Pagine Tot | XI, 381 |
N Pagine Pref | 11 |
N Pagine Txt | 381 |
Parti Gold | [79-109] + [110-139] |
Digitalizzato Orig | No |
Rilevanza | 2/3 |
Copyright | No |
Contenuto
EspandiXVIII.
I PESSIMISTI.
Abbiamo accennato al più autentico e pericoloso nemico interno, che è la sfiducia nelle nostre forze, derivante dal troppo basso concetto delle nostre qualità, delle nostre attitudini, della nostra preparazione remota e prossima; e insomma di tutto quello che noi siamo.
Ma tale sfiducia è la specie d’un genere, una forma particolare d’una sfiducia più larga e più profonda, che merita anch’essa, anzi essa sopra tutto, di esser ben considerata e tenuta d’occhio, affinchè nulla si tralasci per contrastarne assiduamente e impedirne l’azione dissolvente e deleteria.
Il nostro pessimismo nazionale, infatti, s’innesta oggi nel concetto, divenuto quasi sentimento, della debolezza originaria e immedicabile della razza latina:
concetto messo in circolazione da parecchie teorie d’origine germanica, come quella dell’arresto della civiltà moderna nei popoli rimasti cattolici dopo Lutero, e della secolare decadenza anglosassone, dovuta fatalmente al progressivo prevalere delle tendenze democratiche contro la forte aristocrazia della vecchia potente Inghilterra.
Ritornelli troppo cari al pensiero germanico, che ha alimentato nel secolo XIX tanta parte della cultura europea, e quindi troppo spesso ripetuti, in buona fede, anche tra noi, perchè essi non ci tornino a risonare, quasi inconsapevolmente, nell’anima ogni volta che gli avvenimenti, nella dura, alterna ma sempre grave vicenda della guerra, non sembrino tornare a chiederci paurosamente le ragioni, sulle quali abbiamo fondate le nostre speranze.
E quando anche non fosse mai venuta nessun’ora difficile, e nessuna avversità fosse sorta a farci nascere il sospetto che realmente i nostri nemici avessero giusto motivo di giudicarci tutti, noi dell’Intesa, così sfavorevolmente; qual meraviglia che un tal sospetto ci si fosse insinuato nell’animo fin da prima di questa guerra, quando, per esempio, tutta la nostra storia letteraria era piena dei giudizi romantici, che la critica tedesca aveva messi in voga, intorno al carattere della letteratura, e quindi dello spirito italiano e francese, e una pseudoscienza fantasticamente naturalistica aveva pur fatto accettare una visione storica universale orientata tutta secondo la recisa opposizione della razza germanica a tutte le altre:
Così il nostro pessimismo nazionale viene a fondersi in un più ampio pessimismo storico, e ad acquistare novella forza e saldezza da questa concezione svalutatrice di tutto il quadro in cui la vita italiana rientra.
Concezione che tutti certamente si sono affrettati, da che siamo in guerra, a combattere accanitamente, scagliandosi contro la boria germanica;
ma che non può essere stata distrutta così radicalmente da queste polemiche, che il vecchio uomo non risorga o non si provi a risorgere appena s’imponga dolorosamente all’osservazione di tutti il contrasto tra certe virtù tedesche e certi difetti delle nazioni alleate.
Giacchè tutti i concetti storici hanno le loro più salde radici in qualche cosa che non è più storia, ma è credenza, fede, atteggiamento spirituale, la nostra stessa natura.
E così, oltre cotesto pessimismo che abbiamo detto, il quale ora investe nel pensiero di molti non solo mezza Europa, ma anche l’America, c’è ancora un pessimismo più remoto e fondamentale; non più storico, ma teorico;
il quale, per esser meno concreto del primo, non è meno abbarbicato negli animi, nè meno direttamente fecondo di disposizioni funeste a quella fede, senza di cui non si combatte nessuna guerra.
Pessimismo teorico, che non ha bisogno di essere un sistema critico d’idee ragionate e coerenti, per governare l’uomo e troncargli i nervi a ogni ardimento; poichè esso sostanzialmente non è altro che una certa disposizione dell’animo riguardo a tutta la vita, e come un certo carattere, il quale non richiede nè una speciale professione di studi, nè una cultura determinata.
Ed è infatti una forma di pessimismo assai più diffusa che non si pensi; poichè è pure quella sdrucciolevole china, per cui scivolano naturalmente gli animi non dotati di sufficiente vigoria morale e intellettuale per vedere la razionalità delle cose e la possibilità del loro progressivo miglioramento e però del trionfo delle nostre aspirazioni mercè l’opera nostra.
Pessimisti, adunque, dell’uno e dell’altro genere si danno la mano per combattere viribus unitis l’ingloriosa battaglia che in ogni tempo il pessimismo ha combattuto contro la fede, tacciata di ottimismo facilone, d’ingenuo semplicismo e simili.
Parole che spesso, pur troppo, oggi si sentono in bocca anche ai più sinceri amanti della patria, e che troppo spesso suonano come l’espressione del senno positivo, e della piena cognizione della storia e della vita.
Certo, se la fede non fosse altro che ottimismo, così facile a degenerare in fatua e superficiale leggerezza, essa sarebbe la disposizione spirituale più pericolosa, segnatamente in un periodo come questo, in cui giorno per giorno, e quasi momento per momento, bisogna avvisare prontamente ai mezzi di sventare le insidie d’un nemico implacabile, e di far fronte alle difficoltà che sorgono a ogni piè sospinto.
E chiudere gli occhi per non vedere quel che richiede da noi prontezza e alacrità di sforzi incessanti se non si vuol precipitare in un baratro, è partito di cui sarà inutile discorrere, poiche non ci sarà nessuno a sostenerlo.
Ma la fede non è ottimismo.
E se questo è un pericolo, dal quale conviene guardarsi con ogni cura, quella invece è l’arma più potente, che possiamo brandire per la resistenza che sarà infine la vittoria.
La fede è volontà tutt’altro che cieca.
Essa vede gli ostacoli e i pericoli, perchè li cerca; e appunto perchè li vede, mette in opera tutti gli sforzi necessari e adeguati a vincerli.
Essa è forte e sano concetto di sè, che non c’insuperbisce con l’altezza raggiunta, ma ci sprona a quella da raggiungere.
Nè si può dire che sia destinata a venir meno quando cessino le condizioni, in cui può essere ragionevole: giacchè per convincersi che tali condizioni siano cessate, occorre quel certo animo, dal quale la fede si sia dileguata.
Tutti gli uomini di fermo carattere sanno per esperienza che la maggior parte delle difficoltà non sono tali in se stesse, ma perchè tali le consideriamo.
E sempre il mondo in cui viviamo è quale noi ce lo facciamo.
Perciò è propriamente un dovere sacrosanto oggi chiudere l’animo a ogni parola, comunque sincera, che possa scemare la tensione di tutte le nostre energie verso la prova suprema, in cui siamo impegnati:
sia che questa parola ci sia detta dagli altri, sia che tenti affacciarsi e formularsi nell’intimo della nostra stessa coscienza.
E ricordare che oltre il pessimismo disfattistico, più o meno volontario e malvagio, c’è quest’altro pessimismo seminconsapevole e, a prima vista, anche onesto e patriottico, che magari si ha ritegno di manifestare;
ma che dentro all’anima di ciascuno non è meno colpevole e devastatore, se noi non vigiliamo su noi stessi, pronti a soffocare ogni debolezza, a mantenere alto sempre e vibrante lo spirito nella responsabilità solenne dell’ora, nel fermo proposito di non essere inferiori al mandato che la storia ci ha assegnato.
29 aprile 1918.
XIX.
24 MAGGIO 1915.
Dirà lo storico futuro perchè è come il Parlamento italiano il 24 maggio 1915 si trovò concorde nel riconoscere la necessità che l’Italia entrasse in guerra contro il suo antico alleato, svelatosi apertamente quello che in segreto era stato sostanzialmente sempre, il suo mortale nemico, già spezzata quell’alleanza, che per noi era stato strumento di pace e ad un tratto pel volere altrui s’era tramutato in arnese di guerra; e di una guerra contraria agli interessi italiani fondamentali, dei quali s’era sempre veduto nella Triplice la più solida garenzia.
Anticipare l’opera dello storico oggi è impossibile, e sarebbe assurda pretesa il desiderio di coloro che volessero sapere subito, ora, dai così detti responsabili — governo, uomini politici, stampa — quel perchè e quel come.
Tutti in qualche modo potranno rispondere, nessuno potrà dare una risposta esatta e pienamente soddisfacente.La guerra in questa sua immensa grandiosità era imprevedibile, com’è ogni giorno più manifesto;
era incalcolabile anche per coloro, a cui si persiste ad attribuirne, in un senso o nell’altro, la personale responsabilità.
La guerra, col suo prolungarsi, estendersi, complicarsi con elementi sempre nuovi, verso orizzonti sempre più vasti, ai quali uomini di Stato e nazioni guardano di continuo ansiosamente, nell’affannoso sforzo di fissare una meta, a cui la volontà possa condurre, mentre tutte le mete si allontanano e tutti i programmi sono sorpassati dagli avvenimenti e gli uomini come travolti in un vortice di forze superiori ad ogni loro proposito; questa guerra deve ormai apparire agli occhi di tutti come uno di quei massimi fatti storici, che a nessuno cade in mente di considerare effetto di giudizi e risoluzioni individuali.
Un gran cataclisma, che, per dare alla terra un nuovo e più stabile equilibrio e un assetto più resistente alle forze agenti sulla sua massa, scuote le fondamenta d’una o di più città, seminando tra gli uomini la morte e la desolazione, ha anch’esso le sue cause immediate e remote e le sue origini;
ma a chi preme indagarle, quando ancora si odono di sotto alle macerie i lamenti di chi domanda soccorso, e quando l’indomata forza dall’anima umana dalle macerie stesse si leva pronta a rinnovare e perpetuare la vita sullo stesso campo della morte:
La guerra non è un fenomeno naturale, in cui gli uomini non abbiano avuto parte alcuna; ma certo nella vastità del movimento storico, da cui essa risulta, vano e puerile è cercare il punto preciso da cui la guerra cominciò ad essere inevitabile, poichè taluno taluni ebbero avviate le cose per una china, sulla quale non sarebbe stato più possibile fermarle.
Anche la guerra, guardata dal punto di vista dell’uomo individuale, si presenta una fatalità ineluttabile, alla quale si può essere andati incontro con entusiasmo o dalla quale si può essere stati raggiunti e trascinati;
ma che, in un modo o nell’altro, era la legge della nostra vita.
Era quella necessità storica, che ogni uomo, guardi egli la realtà con gli occhi della scienza o della fede religiosa, accetta e fa sua, non soltanto con rassegnazione, ma con pienezza di cuore, di fede, di energia, come il proprio destino;
onde mantiene con virile costanza il posto che gli è spettato nel mondo.
Riflettiamo.
In quella tremenda estate del ’14, al cui confronto impallidiscono e non hanno potere di commuoverci quanti orrori e carneficine seguirono poi nell’alterna vicenda delle maggiori battaglie, pochissimi, tra noi, e soltanto perchè ignoravano i termini precisi dei patti della Triplice, ritennero che l’Italia dovesse, comunque, combattere a fianco degli Imperi Centrali.
Nessuno lo desiderò; nessuno vide nel popolo italiano, che la guerra avrebbe dovuto fare, un lampo di quel sentimento senza di cui non si fa una guerra.
La guerra c’era; ma non era la nostra.
Questo fu il sentimento generale e la netta convinzione di tutti.
La guerra rapidamente incrudì; e ben presto creò tali condizioni mondiali, in cui nessuno dei grandi Stati, che per ragioni geografiche e storiche, economiche e politiche, avessero vitali interessi da garentire, poteva più limitarsi alla parte di spettatore indifferente.
Bisognava risolversi.
Ma la neutralità ci aveva già messi, in effetti, dalla parte dell’Intesa e contro gli Imperi centrali.
La nostra via era dunque segnata.
Si trattava di aspettare temporeggiando, o di affrettarsi.
Il Libro verde dimostrò che più presto non sarebbe stato possibile risolversi.
Più tardi:
Ma c’è ancora chi possa non rimpiangere che all’Italia non sia stato dato d’intervenire più rapidamente, più opportunamente, quando più minacciosi incalzavano i russi sui Carpazi:
Riflessioni molto sommarie, è vero, molto elementari, le quali non pretendono in nessun modo anticipare i giudizi della storia.
Ma nella loro semplicità, nella loro ovvia evidenza, non bastano forse a liberare la coscienza nazionale dal sospetto di aver obbedito ad avventate velleità di una politica utopistica:
Non bastano a confermarci nella tranquilla, nella sicura certezza che la guerra, ad ogni modo, fu anche per noi una necessità: dolorosa, quanto si vuole, ma ineluttabile:
Ebbene, aderire anche oggi, dopo tre anni di prove che riempiono l’animo nostro di meraviglia e di orgoglio, aderire con tutto il cuore, con tutte le forze, disposti sempre a ogni sacrificio, fermi in un proponimento incrollabile, a tale necessità, che è la nostra realtà e la nostra vita, rinunziare alla quale è suicidarsi, questo non è oggi più il nostro dovere, ma il nostro bisogno, l’istinto del nostro essere nazionale.
Guai a noi, se col sentimento ce ne staccassimo, e dubitassimo, e ci arrestassimo, e cadessimo così lungo la via:
L’Italia fu compatita e quasi commiserata dalla Germania, a cui fu utile; fu odiata dall’Austria di un odio, di cui noi non avemmo la virtù di saperla ricambiare.
Alla Vigilia della guerra, per l’una e per l’altra, era divenuta quantità trascurabile.
Cominciata la guerra, fu tenuta a bada finchè si potè e finchè parve che il suo intervento potesse pesare sulla bilancia.
E che ne sarebbe stato di noi, se fossimo rimasti con le mani in mano, come impotenti:
Avremmo noi mostrato di sentire la nostra dignità, il nostro dovere, verso noi medesimi, d’affermare la nostra personalità nazionale, e provare insomma a noi stessi e agli altri, con cui abbiamo diritti da far valere, che ci siamo anche noi al mondo:
L’entrata dell’Italia nella guerra fu il suo ingresso nella grande storia del mondo;
l’ingresso dell’Italia risorta tra le genti per riaffermare una tradizione gloriosa, per ridar vita a un popolo, che aveva un nobile patrimonio ideale da conservare non con l’animo d’un custode di museo, ma con la fierezza e l’orgoglio di chi porta un gran nome e sente di meritarlo.
24 maggio 1918.
XX.
IL RISPETTO DELLE ISTITUZIONI.
In occasione della riapertura della Camera ci sia consentita una franca parola all’indirizzo del Parlamento, poichè non di rado il nostro discorso s’è rivolto in tono di sprone e di ammonimento al popolo italiano.
Il quale, sì, ci pare degno ormai, nella calma virile con cui affronta giorno per giorno ogni sorta di privazioni e di sacrifizi, del grande momento che si attraversa e dell’alto compito che esso liberamente s’è imposto alla pari dei suoi alleati, nel comune rischio, grave d’immensa responsabilità, per la libertà del mondo e per l’instaurazione d’un diritto, che non sia semplice forza.
Degno è il popolo nell’attesa, nel silenzio, nella mirabile disciplina, che è una promessa e un auspicio di quella invincibile resistenza, che sarà per noi la salvezza e la vittoria.
Ma sono altrettanto degni i suoi rappresentanti:
Meritano essi veramente di rappresentare questa nazione, non certo fortunata, nè ancora così vigorosamente formata a compagine di robusta vita politica e amministrativa, da non potere incorrere in dolorosi disastri, ma capace, anche allora, di trovare in se stessa quella forza morale, che salva dalla sconfitta, e fa risorgere una potenza che pareva prostrata, salda nella coscienza del proprio valore morale:
Meritano questi suoi rappresentanti di volgersi a lei, per dirle quel che pure dicono di esser tutti concordi a ritener necessario: — Resisti:
Noi non vogliamo ancora una volta ricordare l’interno conflitto, che lungamente travagliò la coscienza politica italiana nella inquieta e penosa vigilia della neutralità, nè vogliamo ancora una volta ripetere quella triste considerazione, che troppe volte s’è dovuta ripetere durante il triennio ultimo:
circa il vero vizio d’origine (dal quale la nostra guerra) non s’è mai potuto liberare completamente derivante dalla composizione e dalla condizione psicologica della Camera italiana al momento della nostra partecipazione al conflitto mondiale, quando potè parere che essa fosse trascinata dal Paese.
E notorio che da qualche tempo non c’è stata occasione in cui la Camera dovesse manifestare il suo animo, e non abbia proclamato la sua piena concordia con la volontà nazionale, che, come risolutamente entrò nella guerra, risolutamente è ferma nel proposito di non ritrarsene prima che non sia consentito dal suo onore e dai suoi interessi vitali.
Ma è pur notorio che sotto alla superficie s’è sempre agitato un fermento d’inquietudine, che ha tolto a pretesto tutte le possibili questioni di metodo e di persona, non potendo sfogarsi contro la causa fondamentale del malessere; generando nel paese una curiosa, per quanto incresciosa situazione.
E siamo a tale, che ogni buon cittadino, da un pezzo in qua, all’annunzio dell’apertura della Camera, si mette le mani nei capelli, e raccomanda a Dio le sorti della patria; e non sta più tranquillo e non respira finchè non la sappia chiusa di nuovo.
Certo, dal Parlamento son venute al popolo le parole e più gravi e gli esempi, bisogna dirlo, meno, edificanti, a cui esso ha dovuto resistere durante la guerra.
Certo, le alte manifestazioni di entusiasmo nazionale e di fede alla fine di ogni periodo de’suoi lavori, sono state pur sempre precedute da troppe scoraggianti dissertazioni sui difetti degli uomini e quelle difficoltà delle cose, da troppe meschine gare di persone e di partiti, perchè quelle manifestazioni finali potessero sollevare nella nazione un’eco vibrante di gagliarda cordialità, e giovare a cementare tutte le energie morali del popolo in un comune sentimento di fiducia e di speranza.
L’altra volta un deputato, che parlava in nome di un gruppo numeroso, non esitò a gridare trionfante con aria di sfida, ch’era ben tempo di abbandonare le vie tortuose:
confessando che egli e i suoi da un pezzo vi si indugiavano:
E perchè:
Per colpire quelli che avevan voluto la guerra ‘:
Ma dunque non la vollero tutti:
— E pochi giorni dopo un coro di urli accoglieva colui che più di tutti la volle: colui che potrà esser combattuto, se mai, ma non da quelli che dissero di rappresentare il popolo italiano volendo con lui la guerra e per molto tempo poi confortandolo per l’aspra via per cui egli incamminò il suo paese.
Ma dunque:
E che coscienza questa Camera avrà, agli occhi del popolo, della gravità solenne dell’ora, che incombe sul popolo stesso, e della grande Patria, che non è soltanto dei vivi, ma anche dei morti e di quelli che nasceranno, se questa Camera, alla vigilia forse della più dura prova che l’Italia abbia mai sostenuto e abbia pur mai pensato di poter sostenere, e mentre i suoi figli versano il loro sangue insieme con i fratelli di Francia, d’Inghilterra e d’America, per una causa mondiale, non sente il bisogno di raccogliersi in una concordia sincera e austera di propositi, in un comune sentimento di dignità e di fierezza:
Una Camera che persista a non sentire questo bisogno, non è utile al paese;
certo non può conciliarsi il rispetto e la fiducia.
Lo dicono gli stessi deputati, appena fuori di Montecitorio.
Ora, un popolo che dispregia le sue istituzioni, non può reggersi in piedi.
Ci pensino bene tutti i partiti perchè, quando avranno reso inservibile questo Parlamento, che essi lasciano precipitare così in basso, che cosa potranno sostituirvi, che valga a soddisfare e garentire quegli interessi, che ciascuno di questi partiti rappresenta:
12 giugno 19l8.
XXI.
LA GUERRA DEL PAPA.
Se fosse di buon gusto polemizzare di religione col Papa, dal punto di vista cristiano e cattolico bisognerebbe combattere l’arcadica, anzi materialistica concezione della pace, che è la nota fondamentale del recente discorso natalizio di Benedetto XV.
E bisognerebbe dire che la religione del Cristo, quale almeno si venne costituendo storicamente e quale sempre ha voluto definirla anche il cattolicismo, è una religione tutta interna e spirituale, in cui interno è il contrasto, che può affliggere e affligge originariamente ogni anima, e soltanto nell’interno può venire la pace a risolvere il contrasto.
Nè mai la pace soccorre senza il sacrificio dell’uomo, che non rifugge pauroso dalle calamità — come il cristiano vagheggiato dal Discorso — nè torna a Dio per conservare la vita e i suoi comodi, anzi l’affronta lietamente, come quel fuoco purificatore, che solo può bruciare la carne e liberare lo spirito.
Bisognerebbe dire che la pace, il cui voto giace veramente «segreto e compresso in fondo al cuore di tutti», soltanto all’occhio materiale può parere quella che s’aspetta dalla riconciliazione dei popoli belligeranti;
perchè questa è tutt’altro che un voto segreto;
anzi è stato espresso e gridato in tutte le lingue e in tutti i toni; ed è certamente voto universale;
ma non è quello che giace in fondo ai cuori, donde una più cristiana intelligenza delle esigenze religiose dovrebbe portarlo alla luce, e renderlo splendido e scintillante agli occhi dei popoli col vivo senso di quell’amore del divino, che un Papa potrebbe in una allocuzione pel Natale ravvivare con infiammata parola.
Nel segreto delle anime non s’annida infatti l’aspirazione a quella pace che solo Dio può darci, a chi si riconcilii con lui:
E chi si riconcilia con lui se non fa la sua volontà‘:
E si fa la sua volontà preferendo la vita — questa vita terrena— al dovere, alla giustizia:
e non ascoltando l’intima voce della coscienza, che pone al di sopra, molto al di sopra della nostra piccola persona particolare, l’interesse della patria, che è poi l’interesse dell’umanità, cioè dello spirito, e, in altri termini, di Dio, che deve trionfare delle perverse volontà di sopraffazione e di annientamento, onde uomini e popoli, resi orgogliosi da una tumida coscienza delle proprie forze, tentano innalzarsi sull’altrui rovina:
E le interrogazioni potrebbero moltiplicarsi.
Tornare a Dio, prendere la via di Betlemm:
Ma chi nacque a Betlemm:
Quale esempio egli ci lasciò:
Non nacque egli per andare incontro alla morte, fiorente ancora di giovinezza, pur di conquistare all’uomo la libertà, la libertà dal peccato, quella libertà interiore, che può trionfare soltanto in un assetto sociale, in cui ogni sistema di compressione spirituale sia interdetto e reso impossibile:
E perchè, dunque, ricordare il granello di frumento, di cui disse il Maestro, che «non ispunta la spiga se non dopo che sia disfatto dal calore della terra»:
Lasciamo che il granello sia disfatto tra le zolle irrorate dal sangue:
spunterà allora la spiga della pace, che sola è degna di cristiani, lieti soltanto quand’abbiano compiuto il proprio dovere, e fatta così veramente, non soltanto a parole senza significato, la volontà divina.
Ma una polemica come questa, suscettibile evidentemente del più largo svolgimento, non sarebbe di buon gusto, perchè, dopo tutto, sarebbe alquanto ingenua direbbe al Sommo Pontefice cose che egli sa molto bene, da un pezzo:
e non soltanto per teoria, ma anche per lunga tenace pratica.
Insegnare a lui che la vita è guerra e non e pace, e la pace consiste soltanto nella coscienza di far tutta quella guerra che a tempo e luogo conviene:
Da quando in qua, ci ha dato egli l’esempio di quell’arrendevolezza alle proposte di riconciliazione e d’intesa, che le parole del suo Discorso raccomandano oggi tanto premurosamente‘:
Certe riconciliazioni cogli avversari sono patti col diavolo; certe intese, certe paci sono dichiarazioni di guerra a noi stessi, alla nostra missione, al nostro destino.
Questo il papato dal 1870 in qua ha detto sempre all’Italia questo ha sempre insegnato con l’esempio dei secoli a quanti son venuti in conflitto con esso.
E i suoi apologisti non hanno motivo di far oggi la voce grossa contro chi afferma cosa semplicissima ed ovvia, che il ramoscello d’ulivo brandito dal papa è un arnese di guerra, contro il quale bisogna stare in guardia.
Per riuscire convincenti, questi apologisti dovrebbero dimostrare (mettendo per un momento da parte e Betlemme e Gerusalemme, liberata «per divino disegno» e soggiogata «per umano consiglio:)»
in che modo quel papato, che definisce (e non può a meno di definire) il mondo moderno come «l’empietà delle pubbliche cose, l’ateismo eretto a sistema di pretesa civiltà», possa volerne, senza peccato, la conservazione.
Giacchè la pace invocata a parole potrebbe essere effettivamente desiderata e promossa soltanto nel caso che fosse consentito il voto, che tale sistema d’ateismo avesse a perpetuarsi.
Ma il Papa stesso ci avverte che cotesto sistema impedisce il ritorno a Dio: quindi quella pace, che è piuttosto il voto segreto e compresso del cuore papale.
Si vis pacem, para bellum.
E il Pontefice deve far guerra a quell’ateismo, che non è poi altro che lo Stato laico:
ossia non lo Stato senza religione, ma lo Stato che ha in sè, nel suo spirito, la propria religione, e non se ne trova perciò una di fronte, come quella che il Papa rappresentava in Francia, ma sopra tutto in Italia, e che s’è sgretolata ed è caduta, di qua e di là dalle Alpi, e rimarrà fatalmente a terra pel consolidarsi sempre maggiore della coscienza morale dello Stato, che non può esser radicata se non in un profondo sentimento religioso.
E la guerra, col suo prolungarsi, col suo inasprirsi ed esasperarsi non può che staccare sempre di più lo Stato dalla Chiesa, sottraendo (come ha fatto, se mi è lecito designare un nome, nella coscienza dell’on. Meda) il valore assoluto, e quindi divino, del primo ad ogni riconoscimento e sanzione trascendente.
I cattolici infatti, che dal cattolicismo non attingono se non una forma concreta al loro intimo e umano sentimento religioso, non possono ritrovarsi (ancorchè credano di udire, di tratto in tratto, nelle parole papali, l’espressione di loro stati d’animo) in quella pretesa neutralità, che la Chiesa romana ostenta ogni giorno sulle colonne dell’Osservatore romano:
la quale (se fosse possibile) distruggerebbe in loro la sostanza più viva e vibrante del loro essere di cittadini, che, nel momento della patria in pericolo, è la parte essenziale della loro personalità.
Faccia dunque il Papa quello che il dovere del posto gl’impone; ma non aspettino da lui parola di vita, conforme al loro più profondo interesse religioso e civile, gl’italiani che sanno qual posto la storia abbia assegnato a Benedetto XV.
3 gennaio 1918.
XXII.
IL GRANDE EQUIVOCO.
Non può passare inosservato e senza qualche commento l’ordine del giorno votato in questi giorni a Roma dalla maggiore organizzazione cattolica, che, tra proteste e velate minacce, proclama la sua piena, assoluta solidarietà col conte Della Torre, e riprende i vieti motivi polemici dei giorni scorsi, accusando gli avversari di settaria intolleranza nel giudicare l’azione dei cattolici militanti.
Tutta la stampa liberale sarebbe caduta in un enorme equivoco:
Il grande equivoco a me non pare propriamente quello denunziato dal conte Della Torre: «per cui si voleva confondere», secondo di lui, «il pensiero, l’azione, la propaganda dei cattolici durante la guerra con catastrofiche teorie, che non furono mai nella cristiana concezione nell’amor di patria e del diritto delle genti».
E già, se qualcuno avesse voluto confondere di proposito, la confusione non sarebbe stata evidentemente un equivoco, ma qualche altra cosa, assai più grave, che il conte Della Torre avrebbe dovuto pel primo battezzare con altro nome, e combattere con altri argomenti da quelli adoperati nella sua conferenza.
L’equivoco c’è; ma non è degli avversari, che possono magari destramente trarne profitto pei loro fini di parte, cogliendo un’occasione propizia a colpire in pieno petto il partito cattolico; e certamente non potrebbero farlo, se questo equivoco non fosse nella stessa situazione reale, in cui i cattolici si dibattono senza possibilità di assumere un atteggiamento netto e coerente, e quindi chiaro e al sicuro da ogni interpretazione malevola.
Ed è una polemica vana quella che cerca negli avversari il punto debole, che è in noi, e che noi perciò spensieratamente scopriamo ai loro assalti.
Nè vale appellarsi all’equanimità, per veder giudicato il proprio programma e la propria condotta «nella obbiettiva realtà dei fatti», prescindendo, cioè da ogni questione di principii.
Giacchè questa stessa richiesta accusa una certa inquietudine di fronte al giudizio che si attende e s’invoca.
Veramente, la questione recente, che si può dire la «questione friulana», per cui il partito cattolico s’è veduto contro, coi più accesi giornali interventisti, quegli stessi organi liberali più moderati, ai quali stanno a cuore la salvezza e l’onore della patria, affidati alla tenacia della resistenza militare ed interna, è stata una questione non tanto di principii, quanto piuttosto di realtà obbiettiva dei fatti.
Ma la questione difatto non sarebbe sorta, tra esagerazioni forse, nelle quali si sarà, come suole, smarrita ogni equanimità, se dietro ai fatti non ci fossero i principii, che ai primi non danno soltanto il colorito e l’apparenza, ma l’intima sostanza e il significato reale: per modo che, quando pure taluni particolari, su cui la fantasia ha lavorato, si dimostrino insussistenti o ingranditi, rimane pur sempre quel nucleo di vero, che ogni leggenda, com’è noto, racchiude; e se si vuol dissipare davvero ogni equivoco, non basta più smentire l’uno o l’altro di siffatti particolari;
ma bisogna ben chiarire appunto lo spirito della propria condotta.
E in questo spirito, pur essendo disposti alla maggiore giustizia verso la lealtà del patriottismo cattolico italiano, non si può credere nè dimostrato nè facilmente dimostrabile, che non s’annidi quell’equivoco, di cui il Della Torre avrebbe fatto meglio a parlare, e che è, senza dubbio, il germe d’ogni sospetto, che circonda oggi il partito cattolico.
Il quale vuol essere in Italia, ed è, non semplicemente un’organizzazione delle forze morali e politiche, che intendono ispirarsi a un ideale astratto della vita e dello Stato cattolicamente concepiti, ma un’organizzazione delle forze, che prendono a norma suprema d’ogni loro operare nella vita del paese la volontà del Sommo Pontefice.
Il partito cattolico non è una formazione spontanea ed autonoma, che possa, in certo modo, esprimere desiderii e segnare una via alla stessa autorità suprema, ma un’emanazione di questa autorità, che, scegliendone i capi e segnandone le direttive, ne foggia il corpo e lo spirito.
Quindi esso, come partito nazionale, ha una sua logica originaria e costituzionale, alla quale non è possibile che si sottragga:
non può essere prima italiano, e poi cattolico; nè italiano in quanto cattolico;
ma deve prima essere cattolico, e poi italiano; e italiano soltanto in quanto cattolico.
Si risponde subito, che tra i due termini non c’è nè opposizione, nè discrepanza.
E io non ho nessuna difficoltà ad ammettere che in molte coscienze cattoliche, anzi nella grandissima maggioranza, il dissidio non sia avvertito.
Sicchè, se l’impulso all’organismo venisse dal basso, non c’è dubbio che prima o poi il dissidio verrebbe ad essere eliminato; con effetti, per l’essenza dello stesso cattolicismo, che non é qui il luogo di indicare.
Ma, poichè l’impulso viene invece dall’alto, e qui è piuttosto la coscienza direttiva e maggiormente responsabile, quella maggioranza conta soltanto fino a un certo segno: conta, cioè, solo in quanto il partito non si fonde perfettamente nella vita, onde il suo principio tende a investirlo.
Ma il principio è quello che è; ed è non solo diverso, ma opposto a quello dello Stato italiano: e dello Stato, si badi, non in una di quelle forme transitorie, che un partito politico può proporsi di mutare o prima o poi, mediante la propria opera assidua, sempre più efficace e potente, ma nella sua natura di Stato; che è, e non può non essere, quello ’Stato laico, che Benedetto XV dirà «ateismo elevato a sistema»;
ed è intanto il solo Stato, che sia possibile nella democrazia moderna.
Ora questo Stato, pel cui trionfo la guerra si combatte, è forse lo Stato per cui il Pontefice può volere che si sparga il sangue:
«La strage è inutile», egli ha detto, non potendo parlare anche più chiaramente.
L’aveva detto prima che s’entrasse in guerra, ed è ben naturale che continui a ripetercelo ad ogni buona o cattiva occasione, inculcando un tale ritorno a Cristo, che sarebbe un venire a patti coi nostri nemici mortali.
— Pace, rispondono i cattolici, ma non ad ogni costo.
— E dite dunque, se potete, che non dev’essere la pace del Pontefice, che prostrerebbe questa patria santa, che è al sommo dei nostri cuori;
ma la pace della vittoria, la pace della resistenza fino all’ultima ora, che è la sola pace onorata, la sola degna degl’italiani.
11 gennaio 1918 XXIII.
CHIAREZZA E LEALTÀ.
— I «filosofi d’oggi hanno scoperto cose nuove, e specie gli hegeliani d’Italia» Giovanni Gentile è «assorto nella contemplazione dell’Assoluto» ed è «spregiatore professionale del mondo empirico».
Il suo articolo forse «prova quanto sieno pericolose e non filosofiche le filosofie che nella reazione furiosa contro il positivismo non solo non si circoscrivono nella cerchia dei fatti, troppo breve, ma i fatti superbamente disdegnano per ricostruire a priori la realtà»; e forse questo suo articolo «è vero nel campo della filosofia trascendentale dove abitano i Numi» ecc. — Queste e altrettante spiritosaggini di bassa lega sono gli argomenti più efficaci che vengono lanciati contro le semplici considerazioni da me esposte a proposito del discorso natalizio del Papa e della conferenza molto abile, troppo abile, del conte dalla Torre in difesa del l’Unione popolare cattolica e del convegno di Udine del 30 luglio.
E queste spiritosaggini, pervenutemi prima in una quantità di lettere anonime, le vedo ora in un articolo, che deve aver fatto il giro di parecchi giornali cattolici, ma è giunto a me in un giornaletto di Pisa; e reca la firma di uno scrittore, il Semeria, che non può non recarmi la più viva sorpresa, a braccetto del signor Conte dalla Torre, e in atto di fare tutti questi sberleffi alla filosofia, della quale anch’egli si professa o si è professato cultore, e nella quale pure c’eravamo incontrati in passato con reciproca stima.
Giacchè, cattolici o non cattolici (e può darsi che chi non crede di poter lealmente accettare per sè tale designazione, sia anche più cattolico, sostanzialmente, di chi si fa paladino dell’Unione Cattolica), si può essere uniti in un comune sentimento di rispetto verso la filosofia, che non ha pregiudicato mai quelle «sostanze spirituali», di cui dice di vivere il Semeria; tranne i casi, in cui era una falsa filosofia, ossia non era filosofia di che non è possibile accorgersi mai senza contrapporre alla filosofia falsa la vera.
Lasciamo dunque da parte quest’artificiosa antitesi del filosofo e del cattolico, che potrà magari essere un’arma polemica utile per un certo pubblico, ma contro la quale si potrebbero usare armi ben più taglienti se si trattasse semplicemente di aggredire persone e non piuttosto di chiarire, per interessi immensamente superiori a tutte le persone, questioni morali di supremo interesse, cosi per me come certamente per l’ottimo Semeria: e di chiarirle col massimo sforzo di quella chiarezza, che è la lealtà dello scrittore che entri in una discussione in cui i contendenti si accusano reciprocamente di equivoci.
Vi è incorso certamente il Semeria imputandomi di ignorare, o voler ignorare, che la grandissima maggioranza dei cattolici italiani abbian fatto e facciano tutto il loro dovere di italiani con coscienza devota alla patria e rinvigorita nello stesso senso dei doveri civici dalla loro fede religiosa.
Io dissi soltanto che questa gran maggioranza non ha nel cattolicismo se non la forma — pur necessaria, in concreto, ma non sempre intesa e accolta alla lettera, come il Semeria m’insegna — di quel loro «intimo umano sentimento religioso» che io ho sempre altamente rispettato e difeso, propugnando che lo stesso Stato laico dovesse apprezzarlo e promuoverlo, anche nella forma, non scevra di pericoli, del cattolicismo, poichè soltanto da cotesto sentimento ho sempre creduto e sostenuto che si potesse attingere quella fede incrollabile, senza di cui non c’è vita morale di nessun genere.
Il cattolico, contro cui polemizzavo, non era certo quello, additato dal Semeria, che versa il suo sangue per la patria animato anche dalla speranza d’un premio oltremondano; ma quell’altro che fa brillare agli occhi del povero soldato, pronto sempre a morire finchè la patria avrà bisogno del suo sacrifizio, il miraggio d’una pace ingiusta perchè immatura, continuando ad asseverare che la strage è inutile.
Se dunque il Semeria ama la chiarezza, che è poi la verità, cioè Dio stesso — se cosi mi permette chiamarla — abbia la bontà di non mescolare quello che si è distinto, e dev’essere distinto, per richiamare l’attenzione su fatti che non sono stati messi in dubbio, e distrarla da altri fatti, che filosofi o non filosofi, tutti gli uomini di fede, e di buona fede, debbono deplorare.
E i fatti sono questi 1° che oltre la gran massa dei cattolici, che distinguono tra cattolicismo e politica, c’è in Italia un partito cattolico (questa contraddizione in termini, come mi pare abbia detto il mio eccellente amico cattolicissimo Michelangelo Billia, che si è organizzato e ha il suo programma e metodi di lotta, per cui intende di gareggiare col partito socialista ufficiale;
2° che questo partito non è l’espressione della coscienza politica dei cattolici, ma un’organizzazione che, movendo dall’alto e mirando a investire sempre di più la massa dei fedeli per farne esercito compatto e possente di efficienza politica, prende la parola d’ordine dal capo della Chiesa; e non propriamente con quella stessa libertà con cui il monarchico costituzionale obbedisce al suo presidente, siccome ora vorrebbe di Semeria, memore dei vecchi errori modernisti, che per ogni buon cattolico sono definitivamente condannati;
3° che il Capo della Chiesa, come tale, ha un interesse, superiore ad ogni arbitrio individuale contrastante con quello dello Stato, ch’egli lealmente definisce «ateismo elevato a sistema», e che pure è quel bene che il cittadino dev’essere pronto oggi a difendere sino all’ultimo respiro, se egli non è avvelenato dai pestiferi germi di leninismo che sono per l’aria.
Questi sono fatti, o no:
Nascondono essi un pericolo, contro il quale va premunita la stessa coscienza religiosa cattolica:
E non si tratta di un pericolo vecchio per il nostro paese, e di una vecchia piaga dolorosa, ben nota a tutti, e che lo stesso Semeria, studioso di storia e animo sensibile ai problemi spirituali, deve conoscere:
Si metta una mano sulla coscienza, e cerchi quanta vita di quelle «sostanze spirituali», che gli stanno giustamente a cuore, sia sotto la troppo comoda formola del «Papa inter nazionale», che anch’egli ripete.
30 gennaio 1918 XXIV.
CHIESA E STATO.
Le recenti polemiche, originate dagli atteggiamenti di alcune associazioni cattoliche di fronte alla guerra, hanno rimesso in discussione i rapporti fra cattolici e liberali.
Ogni tentativo che si faccia per differenziare la posizione liberale dalla cattolica desta subito le più gravi apprensioni nel campo cattolico; come ne desta troppo nel campo liberale ogni tentativo di distinguere talune forme storiche e positive del cattolicismo dall’intimo suo contenuto, che ne costituisce la sostanza vitale.
Sicchè cominciare a distinguere, come è pur necessario per chi non si contenti di giudizi sommari, grossolani e dannosi, è lo stesso che andare incontro agli sdegni e alle accuse dell’una parte o dell’altra e attirarsi la taccia di settario ora da questa e ora da quella.
Il liberale distingue o, come si dice, se para lo Stato dalla Chiesa, e perciò dalla religione come una determinata organizzazione positiva che abbia a suo fondamento un certo nucleo dommatico.
Deve distinguere i due termini, perché questo è il movimento storico moderno, iniziato dalle lotte politicoreligiose del secolo XVI, che misero capo nel seguente alla coscienza della necessità, nei singoli Stati, della tolleranza o libertà di coscienza, come uno degli articoli più importanti delle nuove teorie liberali.
di quelle stesse teorie, che ebbero tra i loro antesignani i grandi gesuiti della rinnovata scolastica di quei due secoli, e ricevettero forse il contributo più significativo, per la ricchezza e vivacità spirituale di cui era espressione, dagli scrittori cristiani e cattolici, specialmente francesi, della prima metà del secolo scorso.
In Italia i maggiori rappresentanti della politica liberale, spiriti eminentemente religiosi, come il Cavour e il Ricasoli, non si stancarono mai di bandire tale necessità, e della separazione dello Stato dalla Chiesa fecero uno dei problemi vitali, che la nuova Italia avrebbe dovuto risolvere.
Su questo punto, insistettero poi sempre col più vivo interesse tutti gli uomini politici nostri della vecchia Destra, che furono schiettamente liberali e sinceramente professarono il cattolicismo.
Dire perciò che l’affermazione della laicità dello Stato è panteismo tedesco e antireligiosità, è dar prova di troppo scarsa conoscenza dei principii elementari dei liberalismo moderno, e delle sue origini storiche e della gran parte che esso ha rappresentato nella recente storia italiana.
Tutta la nuova Italia è fin dai suoi inizi, per le correnti spirituali a cui si abbeverarono gli uomini che le diedero l’impulso della nuova vita, per tutta la linea di svolgimento percorso nel periodo della sua formazione fino al 1870, Stato radicalmente ed essenzialmente laico.
E questa